NARRATIVA Il coraggio di Primo Levi: «Se non ora, quando?»

leviPrimo Levi / SE NON ORA, QUANDO / Einaudi

“Se non ora, quando?”, uscito nel 1982, è l’unico romanzo scritto da Primo Levi. Non che Levi non avesse fino ad allora scritto opere di fiction, racconti, ma non aveva ancora intrapreso, e non lo farà più dopo questo libro, la strada del romanzo. Il titolo, così intrigante, è ripreso da un brano del Pirgé Avoth (le Massime dei Padri), una raccolta redatta nel II secolo d. C. che fa parte del Talmud: «Diceva Hillel: “Se non sono io per me, chi sarà per me? E quand’anche io pensi a me, che cosa sono io? E se non ora, quando?”». Il libro ebbe un grande successo e vinse in quello stesso anno sia il premio Campiello che il premio Viareggio. All’epoca, Levi non era ormai più solo un testimone, era già uno scrittore di primo piano, anche se non aveva ancora raggiunto la fama e la considerazione che oggi lo fanno ritenere a livello internazionale uno dei più grandi scrittori del Novecento. Il teatro del romanzo sono la Bielorussia e l’Ucraina, terre volta a volta russe e polacche, zona di confine tra i due mondi. Ma nel corso del romanzo, a guerra finita, il teatro della narrazione si allarga ad Oriente, per poi tornare verso Occidente, fino ad arrestarsi nell’Italia appena liberata. La cartina che Primo Levi ha apposto al romanzo va confrontata con quella del viaggio, questa volta reale, fatto da lui per tornare in Italia, descritto nel suo libro “La tregua”. E queste due cartine vanno confrontate con quella delle zone a più intensa attività partigiana ebraica. Una zona che è la stessa che abbiamo visto nelle due mappe di Levi: la zona di confine tra Polonia e Russia, quella occupata dai nazisti nel 1941 nel corso dell’operazione Barbarossa e insanguinata dai massacri delle Einsatzgruppen, la cosiddetta «Shoah attraverso le fucilate» che precede quella attraverso il gas. Una zona disseminata inoltre di ghetti piccoli e grandi, dove i nazisti rinchiudono gli ebrei che non hanno ancora assassinato con le pallottole per poi sterminarli con il gas. Come si può vedere, l’attività dei gruppi partigiani, qui segnalata dalle aree più scure, fu intensa e significativa. Ma allora, che cosa ne è dell’immagine degli ebrei mandati come pecore al macello tanto comune nella letteratura e nella percezione diffusa? Pecore al macello… L’espressione circolava già nel 1942, quando la ritroviamo in un documento del Bund polacco. Era stata usata il 1° gennaio di quell’anno da un giovane sionista, Abba Kovner, chiuso nel ghetto di Vilnius, per esortare alla resistenza contro i nazisti: «Giovani ebrei! Non credete a coloro che cercano di ingannarvi. Hitler vuole annientare tutti gli ebrei d’Europa! Non ci faremo portare come pecore al macello. È vero che siamo deboli e senza difesa, ma agli assassini si può rispondere solo ribellandosi! Fratelli! Meglio cadere liberi da combattenti che vivere sotto il potere degli assassini. Sollevatevi! Sollevatevi con tutte le vostre forze!». L’accusa rivolta agli ebrei di essersi lasciati massacrare senza resistere non venne quindi dagli antisemiti, ma giunse dagli ebrei stessi, dall’interno del mondo ebraico, ed era il frutto della lotta dentro ai ghetti fra quanti preferivano cercare di sopravvivere obbedendo ai nazisti e i giovani che cercavano invece di resistere. Questo avvenne in moltissimi ghetti, non ultimo quello di Varsavia. Tale linea di resistenza, su cui si erano uniti sionisti e bundisti (cioè le due maggiori aree politiche ebraiche fino ad allora in conflitto fra loro), si prolungò nel periodo del dopoguerra in Palestina. Fra l’altro, Abba Kovner creò dopo la fine della guerra un gruppo clandestino intitolato Nakam (vendetta) volto a punire i nazisti e responsabile di un tentativo di avvelenamento di prigionieri nazisti in un campo presso Norimberga. Kovner divenne in Israele il poeta cantore della resistenza dei ghetti ebraici e vinse nel 1970 il prestigioso Israel Prize. La sottovalutazione della resistenza ebraica, la domanda sul perché gli ebrei si siano lasciati massacrare senza reagire, non è però solo il frutto dei conflitti interni ai ghetti. Essa torna costantemente. Fino ad oggi, chiunque vada a parlare di questo tema, in particolare nelle scuole e con i ragazzi, si trova prima o poi obbligato a confrontarvisi. E un luogo comune della prima memoria sulla Shoah, quella durata fino agli anni Settanta, che contrapponeva i prigionieri politici, partigiani e oppositori, mandati nei lager per quello che avevano fatto, a quelli razziali, mandati nei lager per quello che erano. Ci vorrà il rovesciamento determinato dal crescere della memoria sulla Shoah e dall’affermarsi crescente del paradigma della vittima a cambiare questo luogo comune.

Anna Foa, Il Secolo XIX, 21 ottobre 2018