Pittsburgh…

La Torah, narrando la morte di Sara, così descrive la prima reazione di Abramo: “Abramo venne a far lutto per Sara e per piangerla”. La parola che indica il pianto di Abramo contiene una lettera – la caf – scritta in caratteri più piccoli, quasi ed esprimere – così spiega il midrash – che il patriarca limitò la manifestazione del pianto. Rispetto a questa contenuta espressione di dolore da parte di Abramo riscontriamo invece l’ampiezza che la Torah dedica al racconto dell’acquisto, da parte del patriarca, della grotta di Machpelà a Chevron, come luogo di sepoltura per la moglie, per il quale non si accontenta di un dono gratuito, bensì esige un contratto di acquisto con denaro contante, quale segno di diritto definitivo e irrevocabile su quel terreno. Un segno che quella terra, non solo quella grotta, doveva per sempre rimanere alla sua discendenza. Ancor più spicca, rispetto al pianto contenuto di Abramo, l’insolita lunghezza del racconto che descrive la missione compiuta da Eliezer, per adempiere fedelmente al compito che Abramo gli affida, subito dopo aver dato sepoltura a Sara, quello di trovare una moglie con le qualità morali degna di divenire la sposa per il figlio Isacco, e poter così dare continuità alla famiglia e al popolo che da questa doveva nascere. Forse la Torà ci insegna che per ricordare degnamente le perso persone care, più che abbondare nel pianto è importante ed urgente pensare concretamente a come dare seguito e futuro a quanto essi ci hanno lasciato, ricordare i padri e le madri del popolo ebraico, significa pensare al futuro d’Israele. Ma anche ricordare semplici ebrei trucidati durante la preghiera del Sabato in sinagoga significa preoccuparsi che queste sinagoghe e queste comunità possano essere sempre più vive, attive, piene di parole di Torah e di opere di bene. Come Sara. E come le vittime nella sinagoga di Pittsburgh.

Giuseppe Momigliano, rabbino capo di Genova

(31 ottobre 2018)