Due più due

Emanuele CalòLa tragedia del viadotto Polcevera, a Genova, avvenuta il 14 agosto scorso, potrebbe assumere un significato paradigmatico. A nessuno poteva convenire il suo crollo, il che escluderebbe il dolo, ma non la colpa, attorno alla cui sussistenza ruotano le indagini. Sembrerebbe che ci fossero stati avvisi e avvisaglie, anche da più parti finanche contrapposte, senza che qualcuno si sia spinto fino ad avvertire: “attenzione, rischio di crollo parziale”. Oppure, tali avvisi potrebbero esserci stati, ma chi scrive non ne è a conoscenza, lasciando ai prossimi mesi e anni la possibilità di far filtrare nuove informazioni, che rendano giustizia alle molte vittime. Poiché possiamo soltanto fare delle congetture, per ora una delle provvisorie ipotesi potrebbe essere che, sì, i sintomi del male erano presenti, ma non si è fatto due più due, nel qual caso il nodo giuridico sarebbe ancor più arduo da sciogliere. Non vorremmo essere nelle vesti dei magistrati inquirenti e giudicanti, perché il caso si presenta davvero complicato; tuttavia, costoro saranno sicuramente all’altezza di occuparsene, mentre noi siamo qui, come si diceva, ad ipotizzare. Fermo restando che, prima si accerta e dopo (eventualmente) si stigmatizza, e non viceversa.
Nel caso del crollo del Ponte Senatorio, in Roma, noto icasticamente quale Ponte Rotto, le conclusioni non sembrano, invece, così complicate da trarre. Il ponte in questione attraversa(va) il Tevere e, nel 1557, ebbe a implodere il secondo pilone con le relative arcate, mettendo in forse le qualità dell’architetto (M.M. Segarra Lagunes, Il Tevere e Roma, Gangemi, 2004, p. 51). L’opera era stata affidata a Michelangelo, indi sottrattagli per essere affidata a Nanni di Baccio Bigio, il quale deve aver fatto ricorso a materiali non eccelsi, visto che Michelangelo, quando lo attraversava, faceva di tutto per sbrigarsi, consapevole che un crollo sarebbe avvenuto.
I due casi, a parte la mesta fine, sono diversi in tutto, alla quale diversità vi è da aggiungere la presenza di Michelangelo, il cui successore oggi potrebbe essere Renzo Piano, ma su questo si pronunceranno i posteri.
A noi interessa soltanto l’umana, diffusa e quasi ineliminabile difficoltà di fare due più due, la quale difficoltà si presenta come un luttuoso evento, ricorrente lungo la Storia. All’estremo dello spettro, abbiamo l’utopia di Fëdor Dostoevskij, che nelle Memorie del sottosuolo ne fa un’ossessione oppure la distopia, laddove, in 1984, George Orwell annota: “in the end the Party would announce that two and two made five, and you would have to believe it”.
Ne pensavamo leggendo Davide Assael (Moked, 5 settembre 2018) laddove scrive, giustamente, fra altre perspicue osservazioni: “vecchie parole d’ordine, fra cui, purtroppo, è sempre stato presente un antisionismo maschera dell’antico antisemitismo”. A parte che il pregevole brano meriterebbe di essere letto per intero, possiamo rilevare, ora come ora, che se l’antisionismo mascherasse l’antisemitismo, come sovente parrebbe, bisognerebbe aggiornare tutto o pressoché, sempre facendo la medesima operazione: due più due. Lavorare stanca, ammoniva Cesare Pavese, ma a qualcuno toccherà stancarsi e sudare nell’officina delle idee, se vorrà che la sua fatica abbia un senso.

Emanuele Calò, giurista