Machshevet Israel – Il digiuno di parole di Rabbi David HaCohen
Mentre appare in italiano il trattato sul digiuno Ta’anit del Talmud Babilonese, curato da rav Michael Ascoli e pubblicato da Giuntina, un dettaglio tratto dalla biografia di David HaCohen (1887-1972), il brillante discepolo di rav Avraham Itzchaq HaCohen Kook, ci rivela che, una volta giunto in eretz Israel, questo maestro fece voto di un digiuno molto particolare, un ta’anit dibbur: si asteneva dal parlare per quaranta giorni, dal primo del mese di Elul fino alla fine di Kippur. E questo in aggiunta al non bere alcun prodotto della vite, a non farsi tagliare i capelli, a non indossare cuoio e a una rigida dieta vegetariana. Viene da queste scelte il nome con il quale è più conosciuto: il Nazir, il nazireo, di cui tratta la Torà (Bamidbar/Nm 6,1-21) e che associamo a Sansone. Ora, si sa che nel giudaismo né Sansone né i nazirei sono additati a figure ideali o a modelli raccomandati; ma proprio per questo la vita del Nazir ci costringe a interrogarci se tale forma di ascesi, in un contesto sociale e culturale dove eccessi verbali, prolissità e sproloqui continui la fanno da padrone, non abbia qualcosa di profetico o almeno di pedagogico su cui dovremmo riflettere. Vengono alla mente certe pratiche di cui leggiamo nei racconti dei chassidim: isolamento tra i boschi, veglie notturne e preghiere individuali prolungate più simili a meditazioni buddiste che alla tefillà tradizionale. Che siano stati considerati halakhicamente borderline non sorprende lo storico. E tuttavia oggi leggiamo queste storie e vi troviamo qualcosa di autentico, come se quell’ascesi – praticata, secondo le fonti, con una gioia quasi contagiosa – fosse la risposta di un mondo ad un altro, quasi una grande siepe a tutela di qualcosa che, nella vita ebraica della seconda metà del XVIII secolo, si stava perdendo.
Rav Kook era a sua volta vegetariano e non sembra disapprovasse lo stile di vita scelto dal suo miglior discepolo, che nel 1905 era stato attivo nei movimenti rivoluzionari russi e aveva conosciuto l’ascesi delle ristrettezze non scelte, forzate e opprimenti, nelle vite dei ‘proletari ebrei’. Forse frustrato dal fatto che “cambiare il mondo” non era poi così facile come predetto da Marx, si decise per cercare almeno di “interpretarlo”. Per questo in seguito si recò in Svizzera, a Basilea, per studiare filosofia. Ed è lì che avvenne l’incontro che cambiò la sua vita. Rav Kook, che era venuto in Europa per incontrarsi con altri rabbini e vi era stato trattenuto dallo scoppio della guerra, nell’agosto nel 1915 si trovava a St. Galen e accettò la richiesta del giovane ebreo di origini lituane (che aveva studiato anche nella yeshivà di Volozihn) di incontrarlo. Il Nazir racconta nel suo diario: “Dopo essermi immerso nel fiume come mikwè, e portando con me un volume di Chajjim Vital, lo Sha’arè qedushà, pieno di timore e di aspettative, la vigilia di rosh chodesh Elul 5675 [1915] mi avviai verso la casa del Rav. Lo trovai impegnato in una discussione halakhica con suo figlio. Parlammo della saggezza greca [ossia di filosofia, che il Nazir era in grado di leggere appunto nell’originale greco]… Rimasi da loro per la notte, durante la quale il mio cuore non riuscì a tranquillizzarsi. Mi svegliai al mattino e sentii i passi e i mormorii del Rav: stava pregando… Mentre lo ascoltavo, mi sentivo diventare un’altra persona. Annotai subito: avevo trovato più di quel che cercassi, mi ero ‘procurato un maestro’.” Inizia così un rapporto di discepolato, amicizia e collaborazione che sarebbe proseguito nella terra d’Israele per i successivi vent’anni. Poiché anche chi scrive ha scoperto quasi all’improvviso il proprio maestro e si è legato a lui per quasi trent’anni, il racconto del Nazir mi tocca nel profondo.
L’opera di rav David HaCohen porta il titolo Qol ha-nevuà ossia La voce della profezia (pubblicata nel 1970), e secondo il suo autore vi è descritta la “logica ebraica del saper ascoltare”. Gli studiosi concordano: si tratta di un complesso intreccio di filosofia e di qabbalà, scritto nell’arco di quasi cinquant’anni. Non molto, si potrebbe obiettare. Ma ciò sembra in linea con la sua sobrietà, anzi l’austerità linguistica e l’abitudine ad astenersi periodicamente dal parlare. ‘Saper ascoltare’, quale virtù eminentemente ebraica, è il filo conduttore dunque non solo della sua ascesi esistenziale ma anche del suo pensiero, della sua ‘filosofia ebraica’. Un ascolto a tutto tondo, anche delle principali correnti filosofiche del Novecento, oltre di ogni fonte della tradizione ebraica: Torà e Talmud, midrashim e qabbalà, l’amato Hirsch e naturalmente – come orot, come luci sul suo cammino – gli insegnamenti del proprio maestro. Non stupisce che questo originale e rigoroso talmid chakham sia stato soprannominato ha-shomea‘ ha-gadol, “il grande ascoltatore”. Vi è un evidente nesso tra il suo digiuno di parole e l’arte di ascoltare. Viviamo tempi in cui ben pochi sanno trattenersi, le parole si sprecano e perdono di conseguenza valore. Dal digiuno del Nazir più che il non parlare possiamo apprendere sobrietà e contenimento. Anche il mio maestro era su questa linea: per lui un buon libro è un libro che se cade su un piede non ti fa male, e mai scrivere una pagina intera se quel che abbiamo da dire sta in tre righe. E di lavoro faceva l’editore.
Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI