Tradizioni locali

valentina di palmaConfesso, non ho mai imparato il dialetto della cittadina natia, erede di un certo snobismo culturale proprio della generazione nata nel dopoguerra, che del parlato dialettale disprezzava le umili origini. Una perdita culturale, in realtà, da cui fuoriescono sprazzi di orgogliosa consapevolezza in espressioni tanto simpatiche quanto originali e brillanti: così il porcospino diventa il ris-purchin, letteralmente il riccio-maialino, la libellula è chiamata sciurin-sciureta, signorina-signorinella, e (il mio preferito) il pipistrello è chiamato rata-vola, topo volante. Ma anche suggestioni linguistiche intraducibili che portano a chiamare la donnola, forse per le sinuose movenze, bèlula.
C’è poi una memoria locale tutta ebraica non solo nella toponomastica di strade che fanno riferimento ad un presunto ghetto vigevanese, sebbene un ghetto vero e proprio non vi sia mai stato. Una importante presenza ebraica dalla prima metà del Quattrocento, invece sì. Non ai prestatori doveva riferirsi però mia nonna quando, scuotendo la testa per la mia caparbietà, mi chiamava suca baruca, letteralmente zucca barucca, richiamando lontani venditori ambulanti ebrei di zucche che la popolazione dei gentili chiamava barucchi, da Baruch – e sebbene siano state avanzate anche altre proposte etimologiche di questa locuzione, mi tengo stretti i ricordi familiari.
Molto meno simpatica l’espressione, tuttora usata dai pochi che ancora praticano il dialetto di Vigevano, nel sentire un gran fracasso, quando si dice t’sè invià a masà i giudè: stai andando ad ammazzare i giudei, in ricordo di una delle usanze della settimana della Pasqua cristiana. Secondo la tradizione, in auge sino al Concilio Vaticano II, gli uomini si trovavano nelle chiese a fare rumore in sostituzione delle vessazioni quattrocentesche subite dalla popolazione ebraica nei giorni della Pasqua. Nulla a che vedere con l’innocuo scacciare il suono del nome di Haman a forza di raashanim.
Sarà pensando a questo, e alle violenze del Carnevale romano tra Cinque ed Ottocento, tristemente simboleggiate dal palio degli ebrei o da rappresentazioni farsesche come la cassa degli ebrei, che le strade piene di bambini mascherati non mi mettono particolare allegria, commento con i conoscenti che non si pongono il problema se mandare i figli in gita scolastica al Carnevale di Viareggio solo perché ebrei, e in fondo ci sono solo carri e maschere. In quanto a me, aspetterò Purim per mascherarci e quest’anno, perché no, invece di uomini ragno cagnolini mucche e gatti, il nostro personale zoo di travestimenti potrebbe includere una sciurin-sciureta, una rata-vola e un ris-purchin.

Sara Valentina Di Palma

(8 novembe 2018)