Machshevet Israel – Poesia, fondamento del mondo

massimo giulianiLeggo le poche poesie scritte da Avraham Ben Yitzhak, nome letterario di Avraham Sonne, nato a Przemysl, in Galizia, nel 1883 e morto di tubercolosi in Israele nel 1950, amico di Berl Katzenelson, Elia Canetti, Hermann Broch, Lea Goldberg e, si dice, di James Joyce. Sono appena state tradotte e pubblicate, con originale ebraico a fronte, da un piccolo editore di Pesaro, Portatori d’acqua, a cura di Anna Linda Callow e Cosimo Nicolini Coen, con due saggi di Hannan Hever e appunto della poetessa israeliana Lea Goldberg, la quale, tentando di capire perché in vita avesse scritto così poco riuscendo però a diventare così influente e stimato (Bialik lo pone tra i pionieri della nuova letteratura ebraica), dice che “in realtà, la ‘letteratura’ non lo interessava, lo interessava proprio la poesia, come fondamento della realtà, come fondamento del mondo”. Commentano i curatori: “Nelle sue poesie ravvisiamo il distillato di questo interesse ad un tempo metafisico ed esistenziale: metafisico perché la sua poetica riesce a captare le radici stesse della realtà; esistenziale, perché la capacità di ascoltare la realtà a questo livello è inevitabilmente il risultato di uno sforzo individuale”. Mi soffermo su questa lettura con l’intenzione di sottrarre ad Heidegger il monopolio dell’idea che “poesia e filosofia abitino su colli vicini”. Da sempre la filosofia ebraica attesta questa vicinanza: da Shlomo Ibn Gabirol a Yehudà HaLevi, da Yehudà Avravanel (alias Leone Ebreo) a Moshe Chajjim Luzzatto… così come di pensiero ebraico sono intrisi i poemi di Nachman Bialik, Yehuda Amichai e Haim Gouri, per citare solo i maggiori.
Come tacere il fatto che buona parte del Tanakh è scritto in poesia? Dai salmi ai profeti, da Giobbe a Qohelet, fino all’apice del Cantico dei cantici… ne ha scritto in modo brillante Sara Ferrari nel volume “Poeti e poesie della Bibbia”, edito quest’anno dall’editrice Claudiana (vi è acclusa una vasta e aggiornata bibliografia specifica). I siddurim, i libri di preghiera ebraici, traboccano di poesie religiose, veri veicoli dei sentimenti, delle credenze e delle aspettative di tutto il popolo d’Israele. In Occidente la poesia è oggi bistrattata con snobbistica sufficienza (“non vende”) ma per secoli è stata la regina delle espressioni letterarie, e solo la cultura israeliana e quella irlandese conservano ancora, a mio avviso, un po’ di autentico rispetto per quest’arte della parola quale forma privilegiata di accesso alla verità. Ragionando sul linguaggio religioso Pinchas Lapide scrive: “Sulla terra ogni capacità espressiva deriva dal nostro mondo esperienziale e vale solo per realtà finite, mortali; Dio e le sue insondabili vie sfuggono a qualsiasi nostra capacità di comprensione e possono quindi essere espressi soltanto per allusione: nella poesia, nell’allegoria e nella mistica”.
Lo scrittore ungherese Sándor Márai racconta (in “Confessioni di un borghese”) dei suoi anni universitari a Lipsia nell’immediato post-prima guerra mondiale: “La mia lettura preferita era la poesia. E le mie tasche erano sempre piene di volumi di liriche, i cui autori sono poi scomparsi senza lasciare tracce nel deserto della letteratura. Chi ricorda ancora il nome di Albert Ehrenstein? (…) Per diverse settimane, al Cafè Merkur, cercai in qualche modo di tradurre alcune delle sue poesie. Il nome di Franz Kafka era quasi sconosciuto in Germania. I delicati acquarelli di Else Lasker-Schüler vivono ancora oggi nella mia memoria come paesaggi greci intravisti in un sogno”. Già, chi ricorda oggi questa poetessa ebrea che scriveva in tedesco paesaggi greci da sogno… Rimando a un suo profilo penetrante tratteggiato da Claudia Sonino nel libro “Tra sogno e realtà. Ebrei tedeschi in Palestina (1920-1948)”, edito da Guerini e Associati nel 2015. Continua Márai: “Allora ammiravo moltissimo Werfel… ma fu Kafka a esercitare su di me una profondissima influenza. (…) Frugando in una libreria molto semplicemente estrassi da una pila di libri un quadernetto intitolato ‘Le metamorfosi’, cominciai a leggerlo, e subito seppi di aver trovato lo scrittore che faceva per me. Kafka non era tedesco. Non era neppure ceco. Era uno scrittore e basta, così come lo sono, inconfondibilmente e inequivocabilmente, tutti i più grandi”. Márai sa bene che sotto l’idioma tedesco di Kafka vibra un’anima ebraica in tutte le sue fibre e, se mi è permesso un giudizio in un campo non mio, Márai è il più ebraico dei grandi scrittori non ebrei del Novecento (così poeticamente vicino a Canetti, ai fratelli Singer, ad Arnold Zweig… forse perché fu a sua volta un animale in fuga, che scelse e visse l’esilio nel senso forte della parola). La galut è un’esperienza che poeti e filosofi conoscono bene perché è la stessa condizione umana. Cantando la nostra mortalità, la poesia fa preziose persone e cose, guarda l’essere nella luce dell’essere-di-più e tiene viva la memoria perché non rinuncia alla speranza. Per Avraham Ben Yitzhak i versetti più belli mai scritti nella lingua ebraica sono quelli della preghiera Nei‘là, a Kippur: “Aprici le porte/nel giorno in cui le porte si chiudono/poiché il giorno volge al termine”.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI