La difficoltà
delle cose facili

Anna SegreDirei che senza dubbio quest’anno le leggi razziste antiebraiche del 1938 hanno battuto la fine della prima guerra mondiale nonostante l’altro anniversario di novembre fosse ben più tondo. O, almeno, non ci sono dubbi se guardo a quello che si è fatto nella mia scuola o agli eventi in programma di cui vengo a conoscenza. Non escludo che in altre città o in altri contesti la percezione possa essere stata diversa. In ogni caso credo si possa dire con certezza che in questo ottantesimo anniversario di leggi razziali si è parlato come non mai.
Lasciamo agli storici il compito di analizzare e spiegare perché questo sia successo proprio 80 anni dopo e non 50 o 75. Io posso limitarmi a dire qualcosa dal mio punto di vista ibrido di insegnante e appartenente alla comunità ebraica. La mia – ho già avuto occasione di dirlo – è una scuola privilegiatissima (ammesso e non concesso che avere occasione di parlare a lungo delle leggi razziali si possa definire un privilegio): dal liceo Alfieri di Torino nel 1938 furono infatti espulsi ben 39 allievi e due insegnanti. Storie di deportazioni, eccidi, resistenza, nascondigli, fughe, documenti falsi, emigrazioni. Molte di queste storie sono state 20181114_140430narrate in testi autobiografici o saggi storici, molto materiale è reperibile on line. La scuola, che allora era nelle vicinanze della Comunità Ebraica e anche adesso non è lontana, negli otto decenni successivi ha continuato ad avere un certo numero di allievi ebrei e ci sono state anche occasioni di collaborazione con la scuola ebraica. Più di così non si può, ci sarebbe da dire.
Eppure ci sono voluti 80 anni per arrivare a una giornata come quella di ieri, in cui l’intera scuola, e non solo alcuni allievi o alcune classi, è stata coinvolta in un momento di ricordo collettivo. Anzi, più momenti: uno spettacolo replicato tre volte, un reading, una mostra. Sarà anche per tutta questa mole di lavoro gestita in poche settimane, ma è sconcertante quanto siano difficili le cose apparentemente semplici. Per esempio compilare la lista degli espulsi nome per nome e classe per classe. Casi dubbi, situazioni anomale, allievi espulsi e poi riammessi, a cui si aggiunge la difficoltà di decifrare i registri di 80 anni fa: solo pochi giorni fa ci siamo resi conto che Luciana Fubini era in realtà Luciano. Ancora più difficile associare a ogni nome una storia. Avigdor, Foa, Levi, Segre: di chi sarà parente? Sarà la stessa persona nominata nel tale libro o nel tale articolo oppure sarà un’omonimia? Innumerevoli dunque i rischi di brutte figure: nominare un genitore senza l’altro, un fratello senza una sorella, raccontare una storia e non un’altra, ricostruire una vicenda solo parzialmente. Brutte figure perché in molti casi si scopre a posteriori che sarebbe bastata una telefonata (o magari neanche quella, a volte mi sarebbe bastato chiedere ai miei genitori o a mia zia) per scoprire il dato mancante, magari condito con molte informazioni supplementari che ci sono scappate.

E se a Torino non ci fosse stata una comunità ebraica? E se non ci fosse stato un notiziario che ha permesso di informare tutti gli iscritti sulle nostre ricerche? Di fronte alla difficoltà delle cose facili vengono i brividi pensando a quanto potrebbero essere difficili le cose difficili.

Questa esperienza mi ha insegnato a guardare con maggiore indulgenza ai lavori fatti da altri, a rendermi conto dello sforzo immenso e delle difficoltà che incontrano insegnanti e allievi di scuole di provincia, in zone d’Italia dove magari nessuno ha mai visto un ebreo in carne ed ossa. E mi ha anche confermato una volta di più che noi ebrei abbiamo la responsabilità di aiutare chi sta cercando, fornire dati, informazioni, contatti. Ci sono fili spezzati che hanno bisogno del nostro aiuto per essere riannodati. Non è una scelta ideologica, non è una scorciatoia per mantenere un legame di comodo con l’identità ebraica. Semplicemente è un dovere a cui non possiamo sottrarci.

Anna Segre