Lo Stato assassino
Il ripetersi di iniziative, spesso di levatura nazionale, per la ricorrenza dell’ottantesimo anniversario civile dall’approvazione, emanazione, promulgazione e applicazioni razziste del 1938, è un senz’altro un segno di vitalità di una parte della società italiana. Di fatto, il Giorno della memoria che si svolgerà di qui a due mesi avrà al centro, in molte realtà pubbliche, a partire da quelle scolastiche, proprio quel tema. L’attenzione dei molti si è focalizzata non tanto (o non solo) sulla genesi delle misure discriminatorie e persecutorie ma anche sui meccanismi amministrative e burocratici di applicazione. Poiché se le norme contenute nelle leggi enunciano dei principi, la loro attuazione è delegata alla complessa filiera delle amministrazioni pubbliche. Ed al loro ampio spazio di discrezionalità. Il quadro che ne emerge è quasi sempre sconsolante. Al netto delle responsabilità politiche, morali e civili del regime fasciste (e di quei poteri, come la monarchia, che pur fascisti non erano e tuttavia concorsero, beneficiandone negli effetti politici, alla loro legittimazione come disposizioni di Stato) rimane il fatto che certe misure cosi drastiche fu possibile non solo pensarle ma soprattutto tradurle in atti quotidiani proprio perché una miriade di soggetti, diffusi capillarmente su tutto il territorio nazionale si adoperarono affinché producessero i loro drammatici effetti. Il coinvolgimento “creativo” delle pubbliche amministrazioni, così come degli ordini professionali, rimane una delle pagine peggiori nella vicenda della collaborazione al razzismo di Stato. Il quale, infatti, non può avere seguito se oltre a promanare da una volontà politica dominante, in questo caso un regime dittatoriale e monopartitico, non incontra la compromissione di una parte della società, a partire proprio da quelle istituzioni che dovrebbero invece impegnarsi per tutelare gli interessi e soddisfare i bisogni delle collettività di cui sono espressione. Evidentemente il razzismo crea uno specifico “bisogno”, quello della paura, che chiede dai molti di essere soddisfatto smagliando il preesistente tessuto civile e morale di relazioni sociali. Un tale razzismo è quindi “di Stato” dal momento che incentiva, ma anche incontra e favorisce, la disposizione delle pubbliche amministrazioni nel tradurne le enunciazioni di principio e le formulazioni in atti concreti, che cadono poi sulla testa delle persone come delle clave. C’è quindi di che pensare, proprio partendo dalle leggi del 1938, su quanto e come quello Stato che dovrebbe tutelare la vita, sappia in certi frangenti storici trasformarsi invece in moltiplicatore di esclusioni, persecuzioni ed, infinite, sollecito corresponsabile nell’annientamento della vita di una parte dei suoi cittadini.
Claudio Vercelli