…senzapatria
“Come tanti suoi pari negli ex Paesi della Corona austroungarica, era semplicemente uno dei più nobili e più puri tipi di austriaco, e cioè un cosmopolita e, dunque, un nobile autentico. Se per esempio gli avessero chiesto – ma a chi sarebbe venuta in mente una domanda tanto insensata? – a quale ‘nazione’ o a quale popolo si sentisse di appartenere, il conte sarebbe rimasto alquanto confuso, addirittura stupefatto, davanti all’interrogante, e probabilmente anche infastidito e un poco indignato. In base a quali indizi, anche volendo, avrebbe potuto stabilire la sua appartenenza a questa o quella nazione? Parlava ugualmente bene quasi tutte le lingue europee, si sentiva di casa in quasi tutti i Paesi europei, i suoi amici e parenti vivevano sparsi per il vasto e variopinto mondo. Un’immagine in miniatura della varietà del mondo era appunto l’imperialregia monarchia, e perciò questa era l’unica patria del conte. Uno dei suoi cognati era capitano distrettuale a Sarajevo, un altro consigliere di prefettura a Praga, uno dei suoi fratelli prestava servizio come tenente di artiglieria in Bosnia, un suo cugino era consigliere d’ambasciata a Parigi, un altro proprietario terriero nel Banato ungherese, un terzo era nel servizio diplomatico italiano, un quarto, per pura e semplice simpatia verso il lontano oriente, viveva da anni a Pechino”.
“‘Dall’umanità alla bestialità attraverso la nazionalità’, aveva detto il poeta austriaco Grillparzer. Allora si faceva appunto con la ‘nazionalità’ il primo passo verso quella bestialità che oggi sperimentiamo […] E tutti gli uomini che non erano mai stati altro che austriaci, a Tarnopol, a Sarajevo, a Vienna, a Brno, a Praga, a Czernowitz, a Oderburg, a Troppau, nient’altro che austriaci, cominciarono allora, obbedendo alle ‘esigenze dei tempi’, a dichiarare la loro appartenenza alla ‘nazione’ polacca, cèca, ucraina, tedesca, rumena, slovena, croata – e così via”.
“Non c’è dubbio! I capricci assurdi della storia hanno distrutto anche la gioia personale che veniva da ciò che io chiamavo patria. Ora, dappertutto, fanno un gran parlare della nuova patria. Ai loro occhi io sono un cosiddetto senzapatria. Lo sono sempre stato. Ahimè! C’era una volta una patria, una vera, una cioè per i ‘senzapatria’, l’unica possibile. Era la vecchia monarchia. Ora sono un senzapatria che ha perduto la vera patria dell’eterno viandante”.
“Per questo io odio le nazioni e gli Stati nazionali. La mia vecchia patria, la monarchia sola era una grande casa con molte porte e molte stanze per molte specie di uomini. La casa è stata suddivisa, spaccata, frantumata. Là io non ho più nulla da cercare. Io sono abituato a vivere in una casa, non in una cabina”.
(Dal racconto di Joseph Roth “Il busto dell’imperatore”, scritto nel 1934 e contenuto nella raccolta Il mercante di coralli, recentemente ripubblicata dopo tanti anni da Adelphi).
Giorgio Berruto