La scelta di Silvia
Molti sapranno della polemica che ha investito Massimo Gramellini sul web. In un articolo scritto la settimana scorsa a proposito del rapimento in Kenya di Silvia Romano – speriamo che sia presto liberata! –, la firma prestigiosissima del “Corriere” si soffermava sul sentimento diffuso e sempre più ostentato di chi dice: se l’è cercata, se proprio voleva fare del bene, che lo facesse alla mensa della Caritas sotto casa sua invece di fare l’eroe. Gramellini ha spiegato poi di essere stato frainteso, che proprio rappresentando quell’atteggiamento egli intendeva ridicolizzarlo. Io stesso confesso di non aver compreso in prima battuta, e di essermi indignato, ma in questi casi rimane sempre il dubbio se la colpa sia di chi legge (troppo velocemente) o di chi scrive (poco chiaramente). In ogni caso chiarimento accettato, e il “Caffè” rimarrà la mia prima lettura mattutina.
L’argomento è però interessante, se non declinato in chiave gretta (“Fatte li c… tua”, avrebbe sintetizzato l’ineffabile Antonio Razzi). Secondo la norma ebraica vige nelle opere di bene (“Zedaqà”, che in ebraico significa piuttosto “giustizia sociale”) un principio di prossimità: si deve aiutare prima di tutto il proprio parente, poi il proprio vicino, poi la propria comunità e così via. Molte interpretazioni si possono dare e sono state date di tale procedere: personalmente, ho sempre ritenuto che la ratio profonda del concetto sia che bisogna lasciarsi coinvolgere personalmente, e profondamente, dalle difficoltà altrui. Aiutare il proprio prossimo non può ridursi spedire dei soldi all’estero per poi continuare nel proprio tran tran quotidiano. Occorre mischiarsi, trasformarsi, com-patire (nel senso etimologico di “soffrire insieme”).
Se questo è il senso, dunque, che rimprovero potrebbe essere mosso alla giovanissima Silvia Romano? Certo non quello di non essersi “sporcata le mani” (che brutta espressione, ma letterale in questo caso). Al massimo, se le indagini lo dimostrassero, quello di essere stata imprudente, ma ciò sarebbe un fatto accidentale rispetto ai milioni di persone che nel mondo si spostano di continente in continente, animate esclusivamente dalla voglia di fare del bene. E poi, nel mondo globale in cui viviamo, chi possiamo sinceramente considerare non prossimo, alieno? Secondo me il principio rimane valido: tanto di cappello a chi si mette in viaggio e rischia in proprio, per conoscere il mondo e aiutare altre persone; nessun interesse per quanti, e sono molti, in attesa di risolvere il problema della povertà nel mondo non conoscono il nome del clochard che ogni giorno siede davanti al loro portone.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas twitter @tobiazevi
(27 novembre 2018)