Machshevet Israel – I falsi messia, figure da esplorare

massimo giulianiI cosiddetti ‘falsi messia’ hanno costellato in modo abbastanza sistematico la storia del popolo ebraico dalla penisola iberica alla Persia. Ne parlano già le cronache di Flavio Giuseppe e da Bar Khochbà a Jakob Franz sembra quasi un fenomeno costante, guardato con severa preoccupazione dalle autorità ma la cui rilevanza storica e il connesso significato religioso non sono forse stati del tutto indagati. Scholem ha dato un enorme contributo esplorando il caso di Shabbataj Tzevì e Nathan di Gaza (pare non vi sia messia senza chi lo proclami tale) ma la lista è lunga, anche se sconosciuta ai più: da Mosè da Creta a Isacco Al-Isfahani, da Saura ben Itzchaq a David Alroy, da Avraham Abulafia a David Reubeni… e c’è chi include nella lista persino il Ramchal, Moshè Chajjim Luzzatto. Il fenomeno in sé non può essere rimosso solo perché eccentrico o pericoloso, soprattutto quando diventa antinomico ossia rifiuta le mitzwot. In tal senso trovo stimolante questo pensiero di Franz Rosenzweig: “Il falso messia è una figura vecchia come la speranza del vero messia: esso è la forma cangiante di una speranza che non cambia”. Il filosofo neokantiano Steven Schwarzschild, riprendendo un’immagine buberiana, ha sostenuto che i falsi messia sono come i medici che Dio occasionalmente manda a risvegliare il malato – il popolo ebraico in esilio – perché il sonno che lo avvolge, pur necessario per alleviare le sofferenze della galut, non diventi un’anticamera della morte. Questi risvegli, con cui è stata frequentemente scossa la storia della diaspora ebraica, servivano a tener viva la speranza di Israele fino a quando fosse sopraggiunto il vero messia. Ma se servono la causa dell’autentica redenzione, come possono essere liquidati come figure negative o deprecabili?
Dal rabbino americano Irving Greenberg ho appreso che sarebbe meglio definire i falsi messia come dei “messia che non hanno avuto successo” ossia che hanno fallito nel loro intento di aiutare il popolo ebraico a liberarsi o di affrettare la redenzione. È alla luce di questi fallimenti storici e delle troppe speranze andate disilluse nel corso della storia che i maestri, sin dall’epoca talmudica, hanno scongiurato di “non affrettare la fine” della galut e hanno scoraggiato ogni tentativo messianico (soprattutto se esso significa uno scontro con le nazioni tra le quale gli ebrei si trovano a vivere). La pagina del Talmud Babli, Ketubot 111, è emblematica di quest’atteggiamento. Da parte sua il Rambam ha minimizzato le aspettative, restringendo le prerogative messianiche alla restaurazione politica degli esuli in terra di Israele allo scopo di studiare e compiere finalmente tutte le mitzwot. Non sorprende che il sionismo, all’inizio della sua storia, sia stato visto dai alcuni maestri come un’usurpazione di quelle prerogative e come un potenziale ‘falso messianismo’. Il suo successo, nondimeno, ha cambiato nel corso del XX secolo questa valutazione negativa; anzi, l’ha addirittura capovolta. Proprio tale trasformazione di prospettiva fa sorgere, legittima sebbene complicata, la domanda: cosa distingue un messia vero da uno falso? Quali criteri religiosi devono realizzarsi perché un’impresa politica diventi autenticamente messianica? E come tacitare il dubbio che ogni realizzazione politica, anche se ha successo, sia in ultima istanza sempre un tradimento dell’ideale messianico?
Emblematica della tenue soglia e della mechitzà quasi invisibile che divide e separa i falsi dai veri messia (ovviamente al plurale) è la leggenda chassidica che immagina un incontro tra il Ba’al Shem Tov e Shabbataj Tzevì: quest’ultimo sarebbe andato a far visita al fondatore del chassidismo per chiedergli la liberazione. Poiché la liberazione si ottiene con l’associazione delle anime, “il Ba’al Shem Tov cominciò a legarsi con quello, ma senza fervore, perché temeva i suoi brutti colpi. Una volta che il Ba’al Shem Tov dormiva, Shabbataj Tzevì venne e cercò di indurlo a diventare come lui [ad autoproclamarsi messia]. Allora il Ba’al Shem Tov lo allontanò da sé con tale violenza che Shabbataj cadde in fondo agli inferi. Parlando di lui, il maestro chassidico diceva: c’era in lui una scintilla sacra ma Satana l’ha presa nella rete dell’orgoglio”. La storia è raccontata da Buber e attesta la credenza qabbalistica che anche nel più grande dei peccatori sussiste una particella di santità e anche nell’errore si nasconde uno spicchio di verità. Persino nei falsi messia v’è dell’autentico (tov) nella misura in cui la loro istanza messianica, per così dire, non si pone al di sopra della legge, o contro di essa, ma le resta sottomessa, umile e cosciente che anche il messia è al servizio della malkhut ha-shammajjim. Ora, il Ba’al Shem Tov era a un passo dalla falsità ma seppe trattenersi; e Shabbataj Tzevì era a un passo dalla liberazione ma non si trattenne dall’orgoglio e cadde. Fragile e decisiva è la virtù dell’umiltà, sottile la soglia della consapevolezza di essere servitori e non padroni della speranza.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI