Storia – Fiume, un’identità molteplice e tormentata

fiume-citta-di-passione-raoul-pupo-copertina-202x300Raoul Pupo / FIUME CITTÀ DI PASSIONE / Laterza

Rijeka (in croato), Sankt Veit am Flaum o Pflaum (in tedesco); Reka (in sloveno) Szentvite poi Fiume (in ungherese), come in italiano. Una storia che finisce tristemente perché, scrive Raoul Pupo nelle pagine conclusive, Fiume è una città in cui «è rimasta l’urbs, ma in cui è assente la civitas… dove ormai ciò che domina è il monolitismo nazionale croato». [pp. 286-287]. È una storia dunque che illumina un percorso nel e del Novecento e che ha il suo primo momento drammatico intorno alla Prima guerra mondiale, ma che anche si trasporta dentro un lungo conflitto interetnico maturato nel corso dell’800. Il Novecento prima di tutto. La memoria italiana di Fiume, osserva l’autore, nasce nei giorni intorno alla fine della Grande guerra. Fino a quel momento Fiume non è mai entrata nell’agenda politica nazionale. Ma l’Italia, a guerra conclusa, non riesce al tavolo delle trattative a portare a casa il risultato. In quei giorni nasce il sentimento della «vittoria mutilata» che ha come primo vettore l’idea che l’Italia sia un Paese punito dalle grandi potenze che costantemente mirerebbero al suo contenimento, o alla frustrazione delle proprie aspirazioni. In quel clima Gabriele d’Annunzio, forte dell’aura mitica che lo ammanta, nel settembre 1919 compie l’azione simbolica di marciare su Fiume per conquistarla e sollecitare l’italianità della città: un atto che la truppa inviata a contrastarlo non blocca. È l’inizio della «Reggenza del Carnaro» (12 settembre 1919 – 25 dicembre 1920) che costruisce il mito della rivincita, ma è anche il termometro delle molte incapacità politiche degli attori della politica in Italia di sapersi misurare con la condizione: nazione che deve pensare con un linguaggio europeo e non più solo nazionalistico. Fiume è rivendicata da molti in Italia come una città propria. Allo stesso tempo è una realtà a forte presenza croata, una realtà con cui gli italiani di Fiume sanno di dover farei conti con la consapevolezza, per molti, della necessità di «venire a patti». Nello stesso momento in Italia l’afflato nazionalistico produce una nuova violenza. L’incendio della casa della cultura slovena a Trieste, e la caccia al non italiano per le vie della città, nel luglio 1920, sono i primi segni di quello squadrismo che dominerà in Italia a partire dal novembre 1920. Non diverso è lo stato d’animo dei croati e a Fiume. L’altra metà della città non ha parallelamente e specularmente nessuna intenzione di condividere quello spazio con altri. È una condizione che si protrae a lungo e che ha il suo secondo momento di conflitto nella metà degli anni 40, nei giorni della Resistenza tra 1943 e 1945, ma anche, e forse soprattutto, a guerra finita, tra 1945 e 1948, quando di nuovo la guerra ai totalitarismi, sia parte del movimento partigiano jugoslavo sotto Tito, sia il movimento resistenziale italiano non riescono a trovare un linguaggio comune, anzi. All’indomani del 1945 si avvia un processo di lenta espulsione degli italiani, di caccia all’italiano. Per certi aspetti una risposta a quanto fatto dall’occupante italiano tra 1941 e 1944 nei confronti delle popolazioni locali. È una rinnovata caccia all’uomo che conduce alle foibe e poi all’esodo degli italiani dall’Istria e da Fiume. Per quelli rimasti che non condividono il nazionalismo del nuovo regime non andrà meglio: finiranno (i sopravvissuti alle vendette locali) in un campo di rieducazione a Goli Otok (Isola calva), nella Dalmazia settentrionale, vittime di una politica e di una cultura che non perdonano gli incerti e che ricalcano da parte jugoslava le tecniche della «limpieza de sangre» già sperimentata nella cattolicissima Spagna della «reconquista», antigiudaica e antislamica, tra XV e XVI secolo. Lì, scrive Pupo, e ormai siamo all’inizio degli anni 50, finisce il conflitto armato e violento aperto nel 1914. Ma quel conflitto non è solo l’effetto della guerra civile europea 1914-1945. Ha una storia lunga e profonda nel corso dell’Ottocento, tra 1848 e 1914. L’autore si sofferma giustamente nel primo capitolo del suo libro [pp. 3-38] su quel tempo. Sono gli anni della crisi dell’Impero asburgico, che conducono allo sdoppiamento tra Vienna e Budapest (nel 1867) e all’inaugurazione di due politiche di governo dei sudditi; da una parte una componente ungherese che punta sullo sviluppo del porto di Fiume e dunque fa della borghesia della città, in gran parte italiana, il vettore della crescita e, dall’altra parte, un’amministrazione che a Vienna sceglie Trieste come sbocco al mare, e che ha bisogno di sudditi fedeli e dunque sostiene il mondo rurale e contadino in gran parte croato. L’effetto è un conflitto locale che traduce due modelli di sviluppo in termini di scontro tra identità nazionali. Quello scontro sapientemente alimentato dai rispettivi nazionalismi si trasporta nel Novecento. Il resto è il nostro presente.

David Bidussa, Il Sole 24 Ore Domenica, 2 dicembre 2018