…Bund
Il Bund, Unione generale dei lavoratori ebrei dell’Europa orientale, non è stato sconfitto. Non nella battaglia delle idee, almeno. È scomparso, come movimento di massa, dopo che il popolo al quale si rivolgeva è stato in maggioranza assassinato nei campi di sterminio e circa due terzi dei sopravvissuti costretti a un pluridecennale assideramento identitario in quella gigantesca prigione che era l’Unione sovietica. Ha dunque senso interrogarsi sulla storia e l’eredità del Bund dopo la Shoah? È la domanda che percorre i saggi raccolti nel volume “Bundist Legacy after the Second World War” (Brill ed.), di fresca pubblicazione.
Un primo contributo ricostruisce la persecuzione subita dai bundisti, durante la Seconda guerra mondiale, nei territori polacchi occupati dall’Unione sovietica. Fin dal settembre 1939 i leader del Bund, perlopiù accusati da comunisti polacchi desiderosi di sbarazzarsi di “elementi controrivoluzionari”, sono rinchiusi in prigioni, inviati nei gulag o uccisi sul posto. Dopo il giugno 1941 alcune migliaia di attivisti riescono a riparare nelle regioni russe non invase dai tedeschi; chi dopo il 1945 riesce a tornare in Polonia trova però una realtà diversa da quella attesa e numerosi sono i profughi che continuano il viaggio verso occidente. In Polonia, infatti, l’obiettivo dei bundisti immediatamente dopo la Shoah, che aveva compreso lo sterminio del 90% dei circa 3 milioni e 300mila ebrei residenti all’interno dei confini anteguerra del paese, è di ricostruire una vita ebraica, anche a costo di un acceso confronto con i sionisti. Questa politica ha termine in modo brusco con il pogrom di Kielce del 4 luglio 1946, quando una folla inferocita, gridando all’omicidio rituale, aggredisce i pochi ebrei tornati nella cittadina dai campi di sterminio e ne uccide 42. Subito dopo il pogrom, il panico tra gli ebrei polacchi determina la grande emigrazione: solo nei primi tre mesi, nonostante la severa politica immigratoria britannica, partiranno per la Palestina mandataria in 60.000. Il Bund accusa i sionisti di fomentare il clima di terrore e fomentare le fughe, ma è costretto allo scioglimento nel gennaio 1949, quando la Polonia si avvia rapidamente alla dittatura comunista all’ombra degli ultimi anni feroci dello stalinismo.
Da questa data il Bund sopravvive in circoli minoritari in una dozzina di paesi, senza riuscire più a trasformarsi in un movimento di massa. Il centro principale in Europa è Parigi, dove tuttavia i bundisti non escono da una situazione di sostanziale isolamento. Perfino negli Stati Uniti, senza dubbio il centro principale della cultura yiddish nel dopoguerra, il Bund rimane un pesciolino nel mare della cultura ebraica esteuropea, sebbene questa sia in larga misura di ispirazione socialista. Come a New York, anche in Israele un contesto esistenziale tanto differente rispetto a quello polacco inibisce al Bund ogni seria velleità politica: qui gli ebrei ashkenaziti costituiscono un gruppo privilegiato, non più una minoranza costretta a lottare per essere riconosciuta. Nel 1959 l’unico tentativo, fallito, di entrare alla Knesset e trasformare l’organizzazione in un movimento di massa. Otto anni più tardi, dopo il giugno 1967, la voce del Bund israeliano è tra le poche a non unirsi al coro di entusiasmo messianico che segue la vittoria dei sei giorni e l’unificazione di Gerusalemme, mettendo in guardia dalla dilagante retorica del miracolo, della salvezza insperata e della realizzazione di antiche profezie bibliche. Molto attuale, non è vero?
Giorgio Berruto
(13 dicembre 2018)