Identità complessa
Come ogni anno, eccoci alle prese – a fine dicembre – col conformismo prenatalizio che nella diaspora ci circonda e ci avvolge, sin quasi a coinvolgerci. Come puoi non scambiare auguri col tuo collega collaboratore amico non ebreo che festeggia in questo periodo, e deve farlo perché uno stereotipo consolidato e immutabile lo richiede anche al di là delle sincere convinzioni religiose? Ma come ricevere davvero auguri di “buon Natale” e come farli? Ti senti fortemente estraneo a tutto il trambusto elettrizzato di questo periodo e all’evento che ne è all’origine, eppure come fai a starne fuori? Ti salvi in corner con gli auguri di “buon anno”, sottolineando così la tua partecipazione e la tua gentilezza ma anche la tua diversità: non ti sottrai all’augurio ma lo collochi su un piano laico. Si tratta però di una comoda finzione, perché neanche l’anno l’anno nuovo civile è del tutto il tuo anno, anche se in parte lo è dato che elabori i tuoi progetti e formuli auguri a chi ti è vicino proiettandoti anche nell’anno non ebraico.
Dietro a queste ambiguità annuali, apparentemente poco rilevanti, si cela il nodo della nostra identità complessa, un nodo irrisolto che ha la sua forza proprio nell’impossibilità di essere sciolto. Il nostro modo di essere ebrei diasporici – e dunque forse la società ebraica in sé, sviluppatasi in lunghi secoli di diaspora medievale e moderna – è una inestricabile mescolanza di elementi originariamente ebraici, che ne costituiscono il fondo tematico e formale, e di mondi “altri” che provengono da varie realtà locali e che hanno diversamente influenzato il nostro cosmo ebraico, rimanendone a loro volta condizionati. La cucina ebraica, così variegata e ricca di condimenti di molteplici provenienze, è forse il più illuminante segno esterno di questo processo inevitabile, continuo e reciproco.
Se dovessimo indicare un personaggio emblematico della nostra articolata identità, una figura positiva capace di racchiudere in sé i nostri specifici valori e la partecipazione al mondo circostante, chi sceglieremmo?
Forse Nathan il saggio, con la sua etica della solidarietà umana e la sua apertura di fondo a ogni diversità religiosa? Probabilmente no; il personaggio di Gotthold Ephraim Lessing è prodotto di una elaborazione non ebraica, prototipo – con l’esemplare racconto dei tre anelli da lui narrato al Saladino – dell’ebreo figlio dell’Emancipazione. Da ognuna delle fonti dell’apologo (il Decameron, il Novellino, una diversa ma analoga vicenda narrata nel Corano), emerge lo stesso senso di fondo: unico contenuto di saggezza e di bene, relativismo delle tre religioni rivelate, rinuncia a ogni specifica identità religiosa tradizionale in nome di un sostanziale deismo.
Maimonide può forse rappresentare nel modo più elevato l’intreccio composito tra identità ebraica e realtà circostante. Per l’ebraismo, il Rambam è punto di riferimento nella cultura, nell’etica, nella halakhà. Visse però anche in perfetta sintonia con la società non ebraica del suo tempo, nella quale fu grande filosofo aristotelico, grande scienziato e medico, grande mediatore tra la comunità ebraica e il mondo arabo.
Più vicino al nostro tempo, potremmo pensare a filosofi del Novecento come Franz Rosenzweig o Martin Buber, in cui la prospettiva ebraica diviene cifra per interpretare il senso dell’essere (La stella della redenzione) e il significato dei rapporti interpersonali (Io e tu).
Ma paradossalmente il personaggio che in modo più paradigmatico indica la nostra condizione esistenziale di ebrei diasporici è Josef, che nella sua derashà alla parashà di Vaichì Rav Ariel Di Porto designava quasi come un quarto patriarca: consapevole custode dell’identità ebraica sua e dei fratelli, e contestualmente punto di riferimento per la popolazione egiziana; continuatore della tradizione attraverso il soccorso alla sua famiglia, e insieme innovatore nel paese in cui vive che diviene anche il suo paese; antesignano epocale, dunque, della contraddittoria e fervida condizione ebraica.
David Sorani