Machshevet Israel – La religiosità messianica di Hermann Cohen
Tra i molti anniversari del 2018 c’era anche il centenario della morte del filosofo ebreo-tedesco Hermann Cohen (1842-1918) e quasi nessuno in Italia lo ha ricordato. Eppure l’influenza di questo maskil (nel senso di figlio dell’haskalà, dell’illuminismo), che ogni buona storia della filosofia presenta come il fondatore della scuola neo-kantiana di Marburgo, è stata immensa per gli sviluppi del pensiero ebraico del Novecento: da Franz Rosenzweig a Joseph Soloveitchik, da Isaac Breuer a Shmuel Hugo Bergmann, da Nathan Rotenstreich a Steven Schwarzschild – ora per esplicitarne le intuizioni ora per criticarne limiti o mancanze (tra i critici più severi vi furono Gershom Scholem e Yeshayahu Leibowitz) – tracce molteplici dell’“ebraismo kantiano” di Cohen riemergono nel corso del secolo breve dove meno ci aspetteremmo di trovarle. Paradossalmente, proprio le sue posizioni oggi meno apprezzabili (il suo anti-sionismo, la certezza che la simbiosi ebraico-tedesca fosse il culmine della civiltà, il messianismo creduto l’idea centrale e più condivisibile della fede ebraica) sono servite a stimolare un profondo rinnovamento tra gli intellettuali ebrei di lingua e cultura tedesca tra le due guerre mondiali. Si può dire che la filosofia ebraica contemporanea sia tutta pro o contro-Cohen, ma impensabile senza di lui. Nella sua strenua difesa del primato della ragione e dell’etica, in un periodo storico segnato da vitalismi e nazionalismi, irrazionalismi e positivismi vari, la voce inattuale di questo accademico – il primo ebreo ad insegnare in un’università tedesca senza ‘pagare il biglietto’ della conversione al cristianesimo – si è incredibilmente trasformata in un’attualissima àncora di salvazione per molti.
La summa del pensiero ebraico coheniano resta l’opera dal titolo “Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo”, apparsa postuma nel 1919, a un anno dalla sua morte. Si tratta di un’opera sistematica, vasta e ben articolata, non difficile però da leggere (in italiano è tradotta da Pierfrancersco Fiorato e curata da Andrea Poma): è una rielaborazione filosofica del giudaismo religioso, ispirata a una razionalità aperta alla rivelazione e capace di universalizzare, in chiave etica, il messaggio teologico che le Scritture offrono in un linguaggio figurato, midrashico. Scrive Maurice-Ruben Hayoun che Cohen si pensa e “si propone come discepolo fedele di Maimonide, nel quale tendeva a vedere un proprio lontano precursore. La ragione aristotelica che guidava ogni passo del grande filosofo ebreo di Cordova non è altro, agli occhi di Cohen, che la Vernunft [la ragione] di Kant. E il commento filosofico, basato su un’esegesi allegorica, con cui il Rambam interpretava la Bibbia ben corrispondeva al criterio della Vernünftigkeit [razionalità kantiana]”.
Vorrei qui cedere la parola a Martha Cohen, moglie del filosofo, che scrisse una breve prefazione a quella summa aprendo una squarcio biografico che illumina, dall’interno, la radice ebraica del suo lavoro filosofico. E’ anche una testimonianza toccante: “Mio marito ha dedicato il libro alla memoria di suo padre [Gerson Cohen, che era chazan e insegnava alla scuola ebraica di Coswig], al quale era debitore di gran parte della sua vasta conoscenza dell’ebraismo. Già a tre anni e mezzo ricevette da lui la sua prima lezione di ebraico. Più tardi, quando frequentava il ginnasio a Dessau, suo padre non indietreggiava mai di fronte alle fatiche del viaggio e vi si recava ogni domenica, di mattino presto, per dedicare insieme al figlio l’intero giorno libero agli studi ebraici. L’amore e l’entusiasmo del padre per l’ebraismo, uniti a una profonda conoscenza scientifica di esso, accompagnarono il figlio per tutta la vita e contribuirono a far sì che egli amasse l’ebraismo fino all’ultimo respiro con l’interezza della sua grande personalità e che proclamasse la sua grandezza di fronte al mondo intero. [Aveva] una fiducia incrollabile nella permanente forza vitale dell’ebraismo, punto culminante del quale era per lui il messianismo, in virtù del quale si sentì profondamente legato per tutta la vita ai profeti”.
Alla difesa e alla spiegazione del messianismo profetico Hermann Cohen ha dedicato molti scritti, alcuni dei quali tesi a mostrare che, se il giudaismo non è un fossile e non va studiato come si studia l’archeologia egizia, lo si deve appunto alla sua “verità messianica” e al fatto che “la fede di Israele è la speranza” (frase che dà il titolo a una raccolta di interventi coheniani sulle questioni ebraiche, edita da Giuntina nel 2000 e curata da Fiorato). Per Cohen la fede nel messia è al contempo fede nell’umanità e speranza, se non certezza, che l’umanità ha i mezzi per elevarsi sopra ogni egoismo nazionalistico, dato che “il culmine della profezia israelitica, la speranza nel futuro dell’umanità, è il contenuto dell’idea di messia”. La storia del XX secolo, dopo la morte del filosofo, ci ha disincantati dinanzi a tanto ottimismo storico; nondimeno, facciamo attenzione a non buttare con le ‘acque sporche’ del secolo una delle più grandi idee che l’ebraismo abbia mai concepito e offerto al resto del mondo.
Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI