JCiak – Amos Oz, racconto per immagini

Nella memoria restano le immagini di Gerusalemme al crocevia dell’Indipendenza. Le sue vie povere e buie, la sua umanità tormentata e sempre di fretta, le piogge torrenziali dove i sogni della madre Fania finiscono per naufragare. Al cinema il mondo di Amos Oz, il grande scrittore israeliano appena mancato, resterà legato a Sognare è vivere, diretto e interpretato dall’israelo-americana Natalie Portman, che nel 2015 ha trasposto sullo schermo Storia d’amore e di tenebra, la monumentale autobiografia di Oz.
Focalizzato sugli anni fra il 1945 e il 1947, il film narra la nascita di uno scrittore sullo sfondo della nascita dello Stato d’Israele. In una magnifica ricostruzione d’epoca, che alterna al girato preziosi footage storici, entriamo nel cuore del legame tragico e tenerissimo fra Amos e la madre Fania, interpretata dalla stessa Portman.
Parole e immagini parlano lingue diverse. E tradotto in film, ogni libro si asciuga della densità che sulla pagina lo fa respirare. In questo casol’operazione è stata ancora più rischiosa perché Storia d’amore e d’ombra, il libro forse più famoso di Amos Oz, è un lavoro monumentale (627 pp., nell’edizione Feltrinelli, per la magistrale traduzione di Elena Loewenthal). Un memoir sfaccettato e rapsodico, che impastacronache famigliari, Storia, favole, politica, letteratura e spezzoni di conversazione in un linguaggio unico.
Forse era un’impresa fin troppo ambiziosa per un debutto alla regia e di fatto molti critici hanno storto il naso (“Come Natalie Portman ha rovinato un libro di Amos Oz”, s’intitolava impietosa la recensione di Uri Klein su Haaretz). Amos Oz non ha però mai avuto da obiettare. “Oz e la sua famiglia sono stati incredibilmente generosi con me”, aveva spiegato Natalie Portman quando il film era stato presentato al Festival di Cannes. “Lui mi ha sempre incoraggiato a fare il mio film, perché il libro già esisteva e non voleva che semplicemente lo filmassi ”.
Immergersi nella Gerusalemme di Natalie Portman è dunque un altro modo per calarsi nel mondo di Amos Oz, vederlo sotto un’altra luce egustare, ancora una volta, la sua magnifica prosa che la sceneggiatura, curata dalla stessa Portman, sparge a piene mani di scena in scena.
Se Sognare è vivere è destinato ad accompagnare il ricordo di Amos Oz, va detto che lo scrittore aveva già avuto le sue trasposizioni al cinema. Il suo primo grande successo, Michael mio (1968), era diventato un film dello stesso titolo nel 1974.
Diretto da Dan Wolman, il lavoro racconta la storia di una giovane coppia di Gerusalemme che s’innamora, ha un figlio e finisce per allontanarsi. Mentre il marito Michael combatte nella Guerra dei sei giorni, Hannah scivola in un mondo di fantasticherie animato da due gemelli arabi amici d’infanzia. Candidato da Israele all’Oscar, il film – che spesso vira su toni onirici – ha fatto allora molto discutere perché introduceva il tema del rapporto arabi-israeliani in chiave amorosa.
Si basa invece su Una pantera in cantina, uno dei libri di Oz per bambini, The Little Traitor diretto da Lynn Roth. Interpretato da Alfred Molina e Theodore Bikel, celebre per il ruolo di Tevye in Il violinista sul tetto, il film racconta la storia del dodicenne Proffy Liebowitz.
Nel 1947, ultimo anno del Mandato britannico in Palestina, il ragazzino organizza un gruppo clandestino che a sostegno di Israele si propone di far saltare in aria Buckingham palace e il numero 10 di Downing street. Finché viene fermato durante il coprifuoco da un gentile soldato inglese, i due iniziano a parlare e la questione cambia.
Oltre la letteratura, anche l’aspetto politico dell’impegno di Amos Oz è rimbalzato sullo schermo. Interpellato più volte dai documentaristi per le sue prese di posizione in favore della pace – celebre l’intervista rilasciata a Claude Lanzmann in Tsahal nel 1994 – lo scrittore, insieme al collega Abraham Shapira, aveva a sua volta realizzato una serie di interviste a un gruppo di giovani kibbutznik reduci dalla Guerra dei Sei Giorni.
Raccolte una settimana dopo la fine del conflitto, su un vecchio registratore a bobine, girando di kibbutz in kibbutz erano rimaste negli archivi perché l’Esercito aveva censurato le registrazioni, consentendo la pubblicazione di soli alcuni frammenti. A restituirle, per la prima volta in tutta la loro crudezza, è stato nel 2015 Censored voices di Mor Loushy.
Il film parla della Guerra dei Sei Giorni ma affonda lo sguardo nell’atrocità di tutte le guerre. Se ascoltata, dice la regista, la voce diversa dei soldati israeliani, quella voce finora messa a tacere “avrebbe potuto cambiare il posto in cui vivo, facendone un posto migliore per il figlio che sto crescendo, [era] una voce che avrebbe potuto porre fine all’occupazione prima ancora che iniziasse”. C’è da credere che Amos Oz sarebbe stato completamente d’accordo.

Daniela Gross

(3 gennaio 2019)