ospitalità…
“Il Signore disse a Mosè e ad Aron: Questa è la norma dell’offerta di Pesach. Nessuno straniero ne potrà mangiare… Lo straniero e il mercenario non potranno mangiarne” (Esodo 12, 43-45). La partecipazione e la consumazione del sacrificio di Pesach sono indicate nella Torà come elemento peculiare dell’identità del popolo d’Israele, in quanto perpetuano il ricordo della libertà ricevuta come dono dal Signore con la liberazione dalla schiavitù in Egitto; la Torà stabilisce pertanto che lo straniero che pure risiede, in via provvisoria o anche stabilmente in terra d’Israele, non può partecipare a questo rituale in quanto non è parte del popolo ebraico. Questa norma è esemplare del modo in cui la Torà imposta il rapporto tra il popolo ebraico – allorquando questo vive in condizioni di piena libertà e integrità religiosa nella propria terra, disponendo del Santuario come centro spirituale – e persone o gruppi di diversa provenienza che soggiornano o vivono stabilmente al suo interno. In questo caso l’esclusione dello straniero dal partecipare al rito di Pesach definisce in modo chiaro e preciso alcuni caratteri identitari del popolo, introduce dei comportamenti e dei valori che lo distinguono, risulta così essenziale per sviluppare un corretto atteggiamento verso lo straniero; le differenze sono infatti gestite secondo criteri che tutelano l’identità della maggioranza e al tempo stesso consentono di proteggere la condizione naturalmente più debole di chi non appartiene per nascita alla popolazione del paese. Un altro aspetto essenziale è dato dal fatto che nel sistema normativo previsto nel Talmud anche lo straniero residente – gher toshav – acquista il diritto ad essere protetto solo attraverso l’assunzione di determinati impegni di comportamento, costituiti dall’osservanza dei sette precetti noachidi: 1) Non commettere furti. 2) Costituire tribunali do giustizia. 3) Non commettere omicidio. 4) Non avere rapporti sessuali illeciti. 5) Non smembrare un animale vivo. 6) Non commettere idolatria. 7) Non profanare il nome di D-O.
La protezione nei confronti dello straniero residente prevede l’obbligo di garantirne le possibilità di vita; secondo Ramban (R. Moshe ben Nachman) questo significa il dovere di intervenire quando si trovi in grave pericolo, secondo Maimonide l’impegno è più esteso, comprendendo sostegno concreto e comportamenti nei loro confronti improntati a rispetto e generosità (ghemilut chasadim; Maimonide, Norme sui re, 10,12). Il passo della Torà a cui i due Maestri fanno riferimento è il seguente “Se un tuo fratello si impoverirà e le sue forze vacilleranno, dovrai sostenerlo, sia esso anche un forestiero o un avventizio, sicché possa vivere presso di te” (Levitico 25,35). Per quanto queste normative della Torà e del Talmud non abbiano piena possibilità di essere applicate, stabiliscono comunque, non solo in riferimento all’ambito ebraico, criteri importanti nel rapporto tra la popolazione residente e altre persone di varia provenienza, basate sulla chiara definizione dell’identità della popolazione ospitante, sui precisi doveri di chi richiede ospitalità e su altrettante concrete responsabilità verso gli stranieri che conseguono a tali premesse.
Giuseppe Momigliano, rabbino capo di Genova