Pietà è morta

torino vercelliOgni regime politico, anche quelli democratici, si dà le sue parole di riferimento, attraverso le quali definisce se stesso ma anche e soprattutto – nel gioco dei reciproci inversi – ciò che non intende essere. Al pari, nelle diverse stagioni culturali e storiche che si alternano, partiti e movimenti si caratterizzano a loro volta per il linguaggio che adottano. In particolare modo nel modo di identificare e di definire i propri avversari. Si sa: la parola, così come crea può anche distruggere. Può diventare un’etichetta che si appiccica alle persone, determinandone il destino, spesso loro malgrado. Più prosaicamente, disegna e consegna all’individuo una sorta di fisionomia che in nessun modo si è andato cercando ma che comunque lo obbliga o lo vincola nei suoi rapporti sociali. Buona parte del razzismo, di qualsiasi pasta sia composto e contro chiunque si eserciti, parte sempre da una serie di “atti linguistici”, di modi di dire che rivelano specifici, peculiari modi di pensare. La stigmatizzazione passa attraverso queste parole, che servono nella totalità dei casi a deumanizzare, ridicolizzandolo e riducendolo ad oggetto del grottesco, il perseguitato (comunque il candidato alla persecuzione). È valso nel passato, vale per il presente. I sarcasmi e le pesanti ironie che si celano dietro certi linguaggi di uso comune rivelano la loro pericolosità nel momento in cui esprimono non solo l’avversione strenua verso gli interessi altri ma anche il disprezzo nei confronti dell’umanità altrui, cancellata dal proprio orizzonte. La deumanizzazione, infatti, è al centro del discorso razzista. Sfogliando gli archivi sulle leggi del 1938 ritorna, tra le tante cose, anche un articoletto apparso su La Stampa di Torino il 6 dicembre di quell’anno. L’antecedente era costituito dalla lettera di un magistrato del Canton Ticino, i quale aveva chiesto ad un giornale locale di utilizzare un linguaggio più rispettoso nei confronti degli esuli e degli espatriati di origine ebraica. Così scriveva il corsivista: «Un magistrato ticinese ha inviato una lettera a “L’Idea Nazionale” di Lugano, pregando di non essere ingenerosi, di non esagerare nel linguaggio, di avere, insomma, pietà del poveri ebrei perseguitati ed esiliati. Il giornale, riferisce l’”Italpress”, risponde cosi: “apprezziamo il buon cuore, il senso umanitario e la generosità che ha mosso indubbiamente il nostro magistrato: pietà per gli ebrei sta bene, ma chi ha pietà per le vittime degli ebrei? Chi ha pietà per le nostre povere operaie, alle quali ditte ebraiche pagano 55 centesimi per una camicia da uomo, 15 centesimi per un grembiule, 1.20 franchi per un paio di pantaloni da uomo, 6 franchi per un vestito completo di imballaggio, porto di ritorno a carico dell’operaia a domicilio? Chi ha pietà per i nostri commercianti rovinati dai magazzini giudaici con una concorrenza accanita e sleale? Non facciamo del razzismo. La politica razzista, l’orgoglio di razza, l’esclusivismo protezionista ad oltranza, sono proprio caratteristiche degli ebrei, anche se per fare un affare diventano piccini, striscianti e complimentosi. La questione ebraica esiste. Oggi non si può ignorarla. Per il bene stesso degli ebrei, non si può tollerare una Invadenza ulteriore nel Ticino, Spiritualmente siamo troppo lontani dalla mentalità, dal costumi e dalle idee semitiche, e commercialmente non siamo disposti a fare da schiavi e da battistrada al capitalismo, all’egoismo e allo strozzinaggio tradizionale del trafficanti giudaici”. Un buon esercizio, proprio per evitare minestroni indigesti, dove tutto si equivale, ma anche per risparmiarsi facili commozioni che poi si esauriscono dinanzi ai problemi concreti, è di analizzare le considerazioni contenute nell’articoletto di cui sopra e provare a confrontarle con certe affermazioni relative al presente. Provare e verificare per capire cosa c’è di diverso nell’oggi rispetto al passato. Così, tanto per non fermarsi sulla soglia della compiaciuta superficialità.

Claudio Vercelli

(13 gennaio 2019)