Memoria – Andra e Tati, se queste sono bambine

andra e tatianaAndra e Tatiana Bucci / NOI, BAMBINE AD AUSCHWITZ / Mondadori

Parlano al plurale, sempre con il “noi”, ma sono molto diverse. Andra pensa spesso ad Auschwitz, la notte ha gli incubi anche se poi dimentica. Tati non sogna mai il lager, però è stata a lungo tormentata dall’immagine notturna di un rullo compressore. Che cosa c’è di più emblematico per un campo di sterminio? Anche quando evoca la tragedia, nella voce di Tati corre un filo di gioiosa vitalità. Forse perché nella casa di Bruxelles dove vive da cinquant’anni l’ha appena raggiunta Andra, che trascorre gran parte dell’anno in California dalla figlia. Tatiana e Andra Bucci sono le sorelline di Auschwitz, due dei pochissimi bambini sopravvissuti alla deportazione. Insieme hanno vissuto l’arresto e la detenzione nel Kinderblock stemperando l’orrore in normalità. Insieme hanno visto la nonna Rosa Perlow buttarsi in ginocchio davanti a un omone impassibile, la mamma che ischeletriva nel campo, il dondolio dei cadaveri prima di essere scagliati dentro il carro. Insieme hanno affrontato quel lungo viaggio che è “la liberazione nella liberazione”, prima l’orfanotrofio a Praga e poi la rinascita nel collegio inglese diretto da Anna Freud. «Siamo come un francobollo appiccicato su una cartolina», dicono così per restituire una vita in simbiosi. Dopo aver ispirato libri, cartoni animati e fumetti, la loro storia è diventata un bellissimo racconto autobiografico che Mondadori pubblica perla Giornata della memoria (Noi, bambine ad Auschwitz a cura di Umberto Gentiloni e Marcello Pezzetti, in collaborazione con Stefano Palermo). A renderlo speciale è la qualità della testimonianza, due voci che diventano una ma senza annullarsi vicendevolmente, piuttosto disegnando un mondo di sfumature emotive diverse, perché ai lutti della Storia si può reagire in tanti modi. Tati si è dimenticata subito il numero tatuato sul braccio, Andra è come se l’avesse inciso nell’anima. Quando vanno a Birkenau con le scuole, a Tati viene un groppo alla gola non appena scorge la torretta della guardia ma all’uscita si libera rapidamente della bambina perseguitata, mentre Andra per togliersi quei panni ha bisogno di più tempo. Per lei testimoniare insieme significa condividere un peso. Invece Tati confessa di sentirsi talvolta più libera da sola: perché reimmergersi nell’inferno pub far male, molto male, e lei continua a proteggere la “sorellina”. «È stato così per i dieci mesi della detenzione», racconta Tati. «Andra aveva 4 anni, due meno di me: la vedevo fragile, smarrita, più bisognosa di attenzione». Oggi sono due adorabili signore con i capelli bianchi – 81 anni Tati e 79 Andra – ma nella tenerezza con cui si guardano e sorridono complici si intravvedono le bambine prelevate a Fiume da una pattuglia tedesca la sera del 28 marzo del 1944. Ancora ricordano la tavola apparecchiata, in attesa di una cena mai consumata. Le foto dell’epoca le ritraggono elegantissime, il vestitino cucito a punto smock dalla madre sarta. Sembrano gemelle, e forse è stata la somiglianza a salvarle dalle camere a gas, formidabile cavia per la follia dei medici nazisti. Furono arrestate nella loro casa insieme alla mamma Mira, alla nonna Rosa, alla zia Sonia e allo zio Jossi, alla zia Gisella e al cuginetto Sergio che non sarebbe più tornato: l’avrebbero ritrovato appeso a un gancio, le ascelle tagliate per una sperimentazione sui linfonodi. Se oggi si domanda alle sorelle Bucci quale sia il dolore più grande, parlano di Sergio: ma non della sua morte, piuttosto della paura di dimenticarlo. «Quando ci rendiamo conto alla fine di una testimonianza di non averlo nominato, ci assale un senso di colpa terribile». Ricordare è ridare vita a chi non c’è più. Loro si sono salvate grazie a una blockova, la sorvegliante del reparto. Era stata la donna a metterle in guardia. Un medico con il camice bianco si sarebbe avvicinato domandando: «Chi vuole rivedere la mamma?». lati e Andra sapevano di dover stare immobili, mute come statue di gesso. Avevano avvertito anche Sergio: non ti muovere, altrimenti finisci male. Ma Sergio aveva troppa voglia di riabbracciare sua madre. Zia Gisella non avrebbe mai creduto alla morte orribile del figlio. E fino alla fine dei suoi giorni l’ha immaginato vivo e bellissimo in qualche angolo di mondo. La loro è la storia di una famiglia ebrea-russa che ha attraversato tre imperi – quello zarista, l’asburgico e il regime mussoliniano – conservando la ricchezza della Mitteleuropa e un senso inestinguibile di tolleranza. Una storia al femminile dove le protagoniste sono la nonna materna Rosa – una guerriera sopravvissuta ai pogrom dell’Europa Orientale – e la mamma Mira che ha allevato le figlie sostanzialmente da sola mentre il marito navigava per lunghi periodi in qualità di cuoco. Per il padre Nino Bucich italianizzato Bucci – figlio di famiglia cattolica rimasto prigioniero in Sudafrica fino alla fine della guerra – le due sorelle hanno parole di amorosa gratitudine. Ma la figura con cui non smettono di fare i conti è Mira, la madre che ad Auschwitz rischiava la vita per andare a vedere le sue bambine. «Ci abbracciava e ci baciava e la prima cosa che faceva era ripeterci i nostri nomi: voleva tenerci ancorate alla vita, quella fuori dal campo». E Tati e Andra non si perdonano ancora di aver provato ribrezzo per il suo corpo scarnificato. E di aver convissuto serenamente con l’idea della sua morte. Quando nel dicembre del 1946 la ritrovano sulla banchina del treno che da dall’Inghilterra le riportava a Roma restano impietrite dall’emozione. «C’era una folla intorno a noi, uomini e donne accorsi con in mano la foto dei loro bambini scomparsi ad Auschwitz: li conoscete? Sapete dove sono?». Mira non dice nulla e capisce tutto. Di Auschwitz con le figlie non avrebbe parlato più. Era il suo modo per proteggerle: un lungo e impenetrabile silenzio. «Una sera eravamo a casa a vedere in televisione un servizio sui campi di sterminio. Noi due e la mamma scoppiammo a piangere. Allora papà spense la tv. Andammo tutti a letto e non ne avremmo più fatto cenno». Si apriva una crepa, meglio chiuderla subito. E guardare avanti. Tati e Andra si sono sposate, hanno avuto buone vite ricche di affetto e amicizia. Da poco è rimasta vedova anche Tati ed è una festa quando si ritrovano. Tra loro parlano di tutto ma non di Auschwitz, non ne sentono il bisogno. Da vent’anni, dall’uscita del libro rivelatore di Titti Manone, fanno testimonianza nelle scuole d’Europa. Restano colpite ogni volta che in Germania i ragazzi abbassano lo sguardo, come imbarazzati. «In quel paese il processo di elaborazione sullo sterminio è stato profondo, mentre in Italia sembra tuttora incompiuto, anche per la difficoltà degli italiani ad ammettere le loro responsabilità». Negli ultimi tempi testimoniare ha acquistato un nuovo significato civile, la volontà di contrastare i rigurgiti neofascisti e il clima di odio contro i migranti. «Non si possono paragonare i campi di sterminio ai centri di detenzione per i nordafricani, ma quelle immagini di sofferenza sono un’offesa anche alla nostra storia: prima il nemico eravamo noi ebrei, oggi i neri». II loro desiderio più grande è andare a ballare davanti al cancello di Auschwitz insieme a tutti i nipoti. «La colonna sonora? I Will Survive di Gloria Gaynor». Anche Andra sorride. Tati la guarda e sembra felice.

Simonetta Fiori, Repubblica, 15 gennaio 2019