Francia, gli antisemiti a sinistra
Per il lettore italiano il maggior interesse del libro di Michel Dreyfus (“L’antisemitismo a sinistra in Francia”, Edizioni Free Ebrei, Torino 2018) consiste nel poter verificare quanto più profonde – rispetto al nostro Paese – sono state in Francia le radici dell’antisemitismo moderno, sia di quello di destra, coltivato dagli ambienti cattolici e nazionalisti, sia quello di sinistra, nato ad opera di intellettuali che si situavano all’interno del movimento socialista e diffuso anche nel mondo operaio.
Pur facendo qualche riferimento all’antisemitismo presente anche in testi settecenteschi – Voltaire, d’Olbach, alcuni Enciclopedisti – Dreyfus mette a fuoco soprattutto l’antisemitismo che a sinistra si sviluppò nel corso dell’800, soprattutto ad opera di Alphonse Toussenel e di Pierre-Joseph Proudhon, seguiti da numerosi seguaci ed epigoni. Tutto il socialismo francese dell’800 è attratto dalla figura di James de Rothschild, intorno al quale viene costruito lo stereotipo del banchiere ebreo che domina tutta l’economia francese e non solo. Lo “spirito ebraico” viene fatto consistere nella rapacità, nella volontà di accumulare enormi ricchezze a danno dei più poveri e conseguentemente nella capacità di controllare, insieme all’economia, la politica e quindi l’opinione pubblica.
Alla costruzione da sinistra dello stereotipo antisemita fa riscontro a destra un’analoga costruzione che si nutre dei miti nazionalistici, di cui l’espressione più nota è l’opera di Edouard Drumont (“La France juive”) che ebbe un successo straordinario e che mise in evidenza quanto la Francia profonda fosse pronta ad accogliere la tesi di un mondo ebraico che controllava tutti i gangli della vita del Paese.
Secondo Michel Dreyfus fu, alla fine del secolo, il “caso Dreyfus” (la vicenda del capitano Alfred Dreyfus ingiustamente accusato di tradimento, condannato e poi riabilitato definitivamente soltanto nel 1906) che segnò uno spartiacque e consentì un’inversione di tendenza: da allora l’antisemitismo di sinistra è stato, a parere dell’autore, in costante declino, ed è stato coltivato soprattutto in ambienti dell’estrema sinistra, sindacalisti rivoluzionari e anarchici in particolare, mentre il Partito socialista (SFIO), che nasce nei primi anni del ‘900, ha teso sempre più a metterlo ai margini.
Questa tendenza si interrompe e anzi si capovolge negli anni ’30 del Novecento con l’affermarsi, nella sinistra, del pacifismo, nato come reazione alle immani perdite umane subite dalla Francia durante la I guerra mondiale. L’autore mette efficacemente in evidenza come il pacifismo sviluppi dentro di sé tendenze antisemite in quanto attribuisce agli ebrei la responsabilità di rifiutare ogni accordo con la Germania hitleriana in nome della difesa dei propri correligionari perseguitati dai nazisti. Questa è una delle parti più interessanti del libro, perché permette di comprendere l’apparente paradosso dell’adesione al regime pétainista di Vichy di un numero significativo di uomini politici e di intellettuali di origine socialista o comunque di sinistra.
Con la fine della guerra e la nascita dello Stato d’Israele lo scenario cambia radicalmente. Quest’ultima parte del volume è la più discutibile, come è messo in evidenza dal titolo di uno degli ultimi capitoli: “Dalla Liberazione al 1968: la scomparsa dell’antisemitismo fra i socialisti e i comunisti”. Si può sostenere questa presunta “scomparsa” solo a condizione di non considerare l’antisionismo e conseguentemente il rifiuto dell’esistenza dello Stato d’Israele come la forma contemporanea dell’antisemitismo. Ma in realtà a sinistra le cose stanno in maniera più complessa: mentre i socialisti – dopo la scivolone di Vichy – rinnovano la loro cultura politica e si schierano decisamente a favore dello Stato d’Israele, lo stesso non si può dire del Partito comunista che già dal 1949 segue la scia dell’URSS e sarà costantemente non solo ostile allo Stato ebraico ma addirittura accetterà la deriva antisemita che si manifesta in Unione Sovietica e nei Paesi satelliti nell’ultima parte della vita di Stalin.
In realtà Michel Dreyfus è molto indulgente con i comunisti francesi, fino ai nostri giorni, sostenendo che raramente si trovano nelle parole dei leader del PCF espressioni che appartengono al lessico antisemita tradizionale. Quello che Dreyfus sembra non comprendere è che il rifiuto del diritto del popolo ebraico ad avere un proprio Stato è una forma – la più estrema – di antisemitismo, così come lo è il negare a questo Stato il diritto a difendersi.
Più lucida è invece l’analisi del negazionismo, di cui si mette in evidenza proprio la radice di sinistra con Paul Rassinier, Pierre Guillaume e la rivista e casa editrice “La Vieille Taupe”, punto di riferimento di tutto il negazionismo e l’antisemitismo di sinistra, largamente praticato nei gruppuscoli di estrema sinistra, mettendo in evidenza il ruolo di Roger Garaudy, che dopo una lunga militanza nel Partito comunista, iniziata negli anni ’30 del Novecento, precipita nella denuncia del “complotto sionista”, accompagnata dalla conversione all’Islam.
Infine, maggior approfondimento avrebbe meritato una citazione da Pierre-André Taguieff – riportata da Michel Dreyfus – che ha parlato di «strumentalizzazione giudeofoba dell’antirazzismo» proveniente da «uno spazio islamo-gauchista che “nazificherebbe“ Israele». Al di là del gergo usato, è innegabile che esista un problema di saldatura tra le derive antisioniste dell’estrema sinistra e una massiccia presenza islamica, ovviamente ostile allo Stato d’Israele. Che questa saldatura possa avvenire in nome di un “antirazzismo” che produce tesi e comportamenti antisemiti è testimoniata – più che da testi teorici – dagli slogan e dagli striscioni esibiti nel corso di numerose manifestazioni di piazza, e non solo in Francia.
Valentino Baldacci