Machshevet Israel – Perché studiare il Talmud

GiulianiCosa ne sappiamo davvero dei grandi dibattiti (milkhemot Torah) che attraversano il mondo ebraico che, per convenzione moderna, chiamiamo ortodosso, soprattutto in Israele e negli Stati Uniti? Spesso quel che arriva a noi sono questioni minori, come la kashrut del carciofo fritto, mentre ignoriamo le machloqot sulle metodologie di studio del Talmud o sui curricula pedagogicamente più efficaci nel trasmettere l’amore alla stessa Torà. Non si tratta solo di sapere cosa distingue l’approccio allo studio del Brisker Rebbe da altri approcci o di scoprire che anche tra i mitnaghdim di origine lituana c’è una destra e una sinistra, ossia chi è più aperto al metodo filologico-comparativo e chi ancora lo sospetta di eresia. Per entrare nella ricchezza e nella bellezza del pensiero ebraico occorre saper apprezzare il mondo dell’halakhà, capire quanto vivaci e profonde siano le discussioni che animano coloro che al Talmud, al grande codice della cultura ebraica tradizionale, dedicano l’intera vita. È raro infatti che uno studioso del Talmud non gli dedichi tutte le proprie energie. Conferma la regola il grande talmudista, scomparso pochi mesi fa, Yaakov Elman (1943-2018): discepolo di Rav Jitzchaq Hutner, con un master in assirologia (Columbia) e un dottorato in studi talmudici (NYU), fu docente alla Yeshiva University di New York e un’autorità indiscussa sulla società persiana nella quale nacque e si forgiò il Bavli. La sua specializzazione lo rese voce ascoltata tra i maggiori studiosi e roshè yeshivot del nostro tempo come Shaul Lieberman, Aharon Lichtenstein, Yehuda Brandes, Eliezer Berkovits, Daniel Sperber.
Le riflessioni di Yaakov Elman sul perché studiare il Talmud restano stimolanti anche per noi, dato che ora abbiamo alcuni trattati tradotti anche in italiano, e altri seguiranno. Ma non basta ‘avere’ questa traduzione, per quando semplificata; bisogna ‘saperla usare’ ossia capire come va studiato, dove, con chi e per quali scopi; domande tutte che dipendono dalla questione del perché studiare oggi un trattato talmudico. A ben vedere la tecnica e le metodologie di questo studio sono imbricate con la machshavà, con il pensiero o la filosofia di vita che quel testo ha generato e custodito con siepi multiple nel corso dei secoli dalla Persia e dal Medioriente al Nord Africa e all’Europa, e oggi di nuovo da Israele alle Americhe. E tale perché deve spesso lottare contro “un linguaggio difficile, una grammatica strana e una struttura che confonde” (così rav Lichtenstein). Ecco dunque un esempio di dialettica talmudica sullo stesso studio del Talmud.
“Alla domanda perché studiare la Gemara, Rav Yehuda Brandes rifiuta di dare come risposta sufficiente: ‘è la tradizione’. Per questo elenca quattro altre ragioni: 1] ‘la disputa’ è il modo ebraico di argomentare (il Talmud ci insegna a pensare in modo articolato esaminando ogni problema nella sua complessità); 2] ‘la democrazia’ (chiunque sieda in un bet midrash ha titolo per intervenire nella discussione); 3] ‘la forza liberatrice della critica’ (nel Talmud si discute su tutto, si dà grande peso alle ragioni etiche mantenendo la discussione libera e aperta); 4] infine, ‘la varietà’ (il Talmud è un magazzino dell’umana conoscenza)”. Ottimo, ribatte il prof. Elman. Tuttavia, “sebbene queste quattro ragioni siano in sintonia con la mentalità occidentale odierna, sfortunatamente sono anche o anacronistiche o sbagliate. La società in cui operavano gli antichi batè midrash non era una democrazia, anche e soprattutto tra le fila degli amoraim (i maestri della Gemara); molte delle discussioni riportare nei trattati talmudici si estendono su un arco temporale di sei, sette generazioni e si svolgono tra una dozzina di roshè yeshivà: solo costoro hanno davvero voce in capitolo; e il magazzino di conoscenze umane del IV secolo non può competere con quello del XX o XXI secolo”.
Se queste contro-ragioni sono accettabili e ammesse, si chiede Yaakov Elman, come trasmettere ai giovani ebrei l’amore per lo studio dei testi che stanno alla base dell’identità religiosa ebraica? La sua tesi è: poiché non v’è testo senza contesto, conoscere il milieu storico, le forme letterarie e i costumi delle comunità ebraico-persiane aiuta enormemente a capire non cosa sia “il Talmud” ma a scoprire che “nel Talmud” esistono tanti microcosmi – un’eterogeneità di atmosfere e di personalità ebraiche – capaci di far vibrare la vita intellettuale che chiamiamo Torà she-be-‘al-pè, insegnamento orale. L’halakhà era uno degli scopi di questa vita intellettuale, ma non l’unico e tanto meno era esclusivo di altri scopi. Come i rabbini ‘moderni’ di oggi, anche i maestri del Talmud non vivevano in torri d’avorio ma erano esposti alle sfide politiche, economiche, sociali e persino interreligiose del loro tempo. In Babilonia, prima dell’avvento dell’islam, c’erano zoroastriani, manichei, mandei, buddhisti, induisti, cristiani nestoriani.. non solo ebrei. Does it matter? si chiede Yaakov Elman? Riposta scontata.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI