This misery can’t last

Emanuele CalòIl monologo che Celia Johnson in “Brief Encounter” recita a sé stessa, un pensiero porto allo spettatore da David Lean, soprattutto grazie alla magia di Noel Coward, laddove inizia con “this misery can’t last”, si presta non poco alla sua trasposizione in un abbondante ventaglio di vicende più o meno catastrofiche; tutto ciò anche grazie all’ambivalenza del vocabolo “misery” che, malgrado il suo diverso significato, rimane indissolubilmente legato nella nostra mente al suo faux ami italico. Ironicamente, la storia era ambientata in Milford Junction; se il testo non fosse stato così risalente, ripreso addirittura da”Still life” dello stesso Coward, gli avremmo potuto attribuire qualche recondito quanto sordido significato.
Per esempio, pensavo ad una porzione non indifferente dell’ebraismo statunitense, impegnata nell’incessante lavorio di JStreet, mediante gli strumenti tipicamente locali del lobbying presso parlamentari e candidati parlamentari, accoppiato alla propaganda politica, affinché il Governo e il Congresso seguano i suoi auspici, in contrasto con l’azione del governo democraticamente eletto dello Stato d’Israele.
L’elettore israeliano si trova, obiettivamente, ad emettere un voto fiaccato dall’azione parallela di una parte dell’ebraismo statunitense. Per dirne una (ma tante ve ne sarebbero), nel caso del trattato con l’Iran, la valutazione di JStreet e del governo israeliano erano in aperto contrasto. È legittimo, alla luce dei principi democratici, che un diritto fondamentale, come quello all’autodeterminazione, si intersechi con l’azione di chi non paga le imposte, non fa il servizio militare e non corre i medesimi rischi?
Il dibattito è aperto e, aggiungiamo, è tutt’altro che nuovo; naturalmente, è più che legittimo pensarla diversamente. Forse qualcun altro avrà già scritto che vi è, alla base dell’azione descritta, non solo la buona volontà ma pure una robusta dose di ingenuità, perché JStreet agisce nei riguardi di Israele sulla base dell’assunto che basti la volontà del governo israeliano di turno per risolvere il conflitto arabo-israeliano, come se la controparte non esistesse e come se Rudyard Kipling fosse non solo ancora fra di noi, ma godesse pure dei benefici della gioventù.
Le responsabilità del conflitto: di risolverlo, oppure di non risolvere nulla e finanche d’inasprirlo, gravano su ambedue le parti, la cui pari dignità non dipende da noi ma è nella natura delle cose. Se qualcuno volesse le prove di quanto dico, sarò ben lieto di offrirle. Non esistono popoli adulti e popoli non maturi, e non basta la voglia di vivere tranquilli (quasi che qualcuno volesse campare male) per costruire con le carte quei castelli che necessitano della dura pietra. Non dobbiamo per forza amare il nostro nemico, ma sicuramente dobbiamo rispettarlo. In questo senso, il falso amico (come dicono i traduttori) si rivela, per contro, genuino assai: “this misery can’t last”.

Emanuele Calò, giurista