Contro le deleghe

torino vercelliHa qualcosa di molto discutibile l’idea, abbondantemente diffusa, che dinanzi alle manifestazioni assortite e vivacissime di intolleranza (un trend in deciso aumento) l’unica via perseguibile sia quella giudiziaria, magari creando nuove fattispecie di reato. In una sorta di proliferazione incontrollata. Fa il paio, andandovi a braccetto, con quella universalmente diffusa per la quale il mestiere di storico consista essenzialmente nell’emettere condanne o nell’avallarne la loro emissione. L’uno e l’altro atteggiamento – infatti – non rispondono ad un bisogno di giustizia, anche se da parte di coloro che li esprimono sono invece vissuti in tali termini. Così come neanche di risarcimento delle vittime. Piuttosto, rischiano di essere l’indice di un’impotenza, quella del mondo politico nel governare i processi di trasformazione sociale. Ai quali si contrappone, invece, una specie di fallace e illusoria società dei divieti, appaltata ai codici e alla magistratura. Va da sé che ogni atto razzista, di prevaricazione, di persecuzione e cos’altro debba essere non solo stigmatizzato moralmente ma anche sanzionato civilmente. Che le due cose debbano implicare sempre e comunque il ricorso alla punizione legale non è invece cosa altrettanto certa. E non per una sorta di remora nell’uso in sé della sanzione ma per la necessità che quest’ultima abbia un esito effettivo e non solo illusorio. Effettività e tangibilità, più che mai in questi casi, consistono – quindi – non tanto nell’inibizione temporanea dettata da una pena nei confronti del singolo reo, bensì dall’esercizio di una pedagogia civile che, sanzionando la singola devianza, aiuti la collettività a capire quale sia la norma nelle relazioni sociali. Elevare ulteriori divieti affidati all’azione della magistratura (al limite a quella delle “carte bollate”), laddove già sussiste una legislazione in grado di colpire penalmente e civilmente chi diffama e offende, non offre nessun riscontro certo se non quello dell’abdicazione del ruolo della politica nella costruzione di coesione sociale. Peraltro, le legislazioni esclusivamente sanzionatorie e punitive rischiano, tanto più in questi casi, quasi sempre di essere impiegate non solo in interpretazioni “creative” (quindi distorcenti) da parte di chi è chiamato ad applicarle, ma anche, nel mutamenti di clima politico, ad essere manipolate in funzioni dichiaratamente estranea alle ragioni per cui in origine sono state generate. Il razzismo si combatte prima di tutto politicamente. E non riusciamo a farlo poiché se c’è qualcosa di chiaramente assente sulla scena del nostro tempo è la politica stessa, soprattutto laddove essa sia progetto e speranza e non solo mera contabilità. Il suo vuoto, non a caso, viene temporaneamente coperto da quella scimmiottatura della volontà e del sentire collettivi che è il pregiudizio, in tutte le sue salse. Da qui bisognerebbe forse ripartire, affrontando alla radice quel senso di impotenza che sempre più spesso ci accompagna.

Claudio Vercelli