Storia di un genio

“Salinger – La vera storia di un genio”, di Kenneth Slawenski, è appena uscito da noi, per i tipi della Newton Compton; il titolo originale era “J.D. Salinger: a life” (oppure “J. D. Salinger: a life raised high”, a seconda delle edizioni). Non è secondario che il formato Kindle costi in italiano la metà di quello in originale, anche se talune traduzioni (“scrutinio” per “scrutiny”, per esempio, mi lasciano dubbioso, ma lascio la risposta agli anglisti, mi sembra più prudente).
Jerome David Salinger (Usa, 1919/2010), come ciascuno sa, gode di fama non effimera grazie a “The catcher in the Rye”; in francese “L’Attrape-cœurs”, in spagnolo, in modo più aderente “El guardián entre el Centeno”. Il titolo italiano (“Il giovane Holden”) è senz’altro più suggestivo; d’altronde, noi eravamo bravi per i titoli: non è da tutti trasformare “Stagecoach” in “Ombre rosse”. Poi, in Italia, siamo andati un poco indietro, visto che qualche bestseller di autori italiani riprende dal passato, ossia, s’ispira oppure copia senza ritegno.
L’uomo è stato un eroe di guerra, in campo amoroso approcciò Oona O’Neill, figlia del Premio Nobel Eugene (prima che gli preferisse il vecchio Charlie Chaplin), in campo letterario aveva incrociato durante il conflitto Ernest Hemingway, che lodò il suo talento. Una guerra, peraltro, in cui gli americani avevano commesso tanti errori grossolani, come ad Anzio e poi ad Hürtgen, nell’ambito della controffensiva tedesca delle Ardenne, dove Salinger sopravvisse in parte per caso e in parte per il suo grande coraggio e lucidità. Non si sa se fosse consapevole che, in caso di cattura, la sua condizione di ebreo avrebbe maledettamente complicato le cose.
I soldati ebrei americani erano mezzo milione, e venivano da una nazione dove c’erano delle situazioni di apartheid vero e proprio, dove era possibile che la scritta “gentiles only” tenesse compagnia alla scritta “whites only”. In un campo di prigionia, il comportamento dei commilitoni era fondamentale; alcuni protessero gli ebrei a costo della vita, talaltri li misero a repentaglio.
Quanto al prenome e nome del protagonista, secondo una tesi ancora diffusa, sarebbero stati attinti dai nomi di due attori di Hollywood, William Holden e Joan Caulfield, protagonisti del film “Dear Ruth”. Sennonché Slawenski spiega che Salinger aveva già chiamato così il protagonista di un suo racconto nel 1941, mentre la carriera cinematografica di “quest’ultimo”….”John Caulfield” non sarebbe cominciata prima del 1945: insomma, nella versione italiana Joan diventa John.
Il protagonista sedicenne del capolavoro di Salinger, Holden Caulfield, rimasto indietro e trasgressivo, ha finito per ispirare diversi omicidi, compreso quello di John Lennon. L’assassino, nei diversi casi, o portava con sé il libro oppure dichiarava di essersene ispirato. Anche se è un’ovvietà, “Il giovane Holden” non è un libro pericoloso. Può darsi che in certi casi estremi abbia accompagnato le azioni di chi risentiva di un rapporto patologico, ma colpevolizzarlo sarebbe come imputare le esondazioni ai rabdomanti.
Piuttosto, il libro è diventato un long seller di culto sia per le notevoli doti letterarie e stilistiche dell’autore sia perché segna l’inizio della ribellione giovanile, un conflitto generazionale che contestava la società borghese ma che non ha mai trovato con cosa rimpiazzarla, ponendo in essere un’insicurezza di cui possiamo misurare le conseguenze negli studi di Erich Fromm (Escape from freedom). La fama di Salinger si è anche giovata dal mito che doveva inevitabilmente scaturire dalla sua vita da eremita, in una sorta di auto-segregazione, essendo scontato che lo si cercasse con un’intensità inversamente proporzionale al suo desiderio di non essere reperibile.
La biografia di Slawenski non è sempre amena, e alcuni episodi importanti della vita di Salinger sono liquidati in modo troppo sommario, ed è il caso del suo rapporto con la diciottenne Joyce Maynard (ebrea come Salinger) quando lui era ormai cinquantatreenne, rapporto che quest’ultima racconta con dovizia di dettagli in “At home in the world”, salvo approfondimenti in recenti interviste.
Nella biografia, l’autore racconta che il padre di Salinger non lo accompagnò al colloquio di iscrizione al College, mandando al suo posto la moglie, con la pelle chiara ed i capelli rossi, e quindi dall’aspetto ariano, perché quasi tutte le università e le scuole private americane applicavano quote di ammissione mirate a ridurre al minimo il numero di ebrei iscritti. Negli anni della depressione – soggiunge Slawenski -la gente dava la colpa del tracollo ai banchieri ebrei (ricorda qualcosa?).
Contrariamente a quanto si legge in qualche documento ufficiale, non è la chiusura degli ebrei, reale o presunta, ad ingenerare l’antisemitismo, perché il razzista non ha bisogno di alibi e pensarla in modo diverso significa dare la colpa alla vittima (perché ti ostini ad essere nero, ebreo oppure omosessuale?).
Nelle scorribande del giovane Holden c’è molto della difficoltà ebraica di raggiungere l’equilibrio in una società che lo respinge; quel protagonista è un funambolo e dalla fune -si sa – è possibile cadere. D’altronde, il prenditore nella segale (The catcher in the Rye) si assume il compito di afferrare i fanciulli perché non precipitino nel dirupo: “What I have to do, I have to catch everybody if they start to go over the cliff–I mean if they’re running and they don’t look where they’re going I have to come out from somewhere and catch them. That’s all I’d do all day. I’d just be the catcher in the rye and all. I know it’s crazy, but that’s the only thing I’d really like to be. I know it’s crazy”.

Emanuele Calò, giurista

(26 febbraio 2019)