Periscopio – Memoria al veleno

lucreziPer chiunque sia impegnato sul fronte della tutela dei diritti umani e della dignità dell’uomo, della lotta contro ogni forma di prevaricazione, razzismo, antisemitismo, del faticoso ma irrinunciabile sforzo di costruire un mondo migliore, la tutela della memoria, com’è noto, è un valore primario e assoluto. Niente di solido, di credibile, di affidabile può essere costruito sull’oblio, sull’obliterazione del passato o, peggio ancora, sulla menzogna, sulla negazione di ciò che è stato. Il ricordo delle vittime non rappresenta un mero atto di pietas umana, un gesto di solidarietà e partecipazione, così come il ricordo dei carnefici non è solo un rinnovo di condanna e di esecrazione: in entrambi i casi, la memoria del male – di quello subito e di quello inflitto – è un fondamento imprescindibile di qualsiasi tentativo di costruzione di una civiltà umana che possa essere definita tale.
Sollecita importanti considerazioni su tale terreno un articolo, molto crudo e triste, scritto da Stephen M. Flatow sul sito jns.org del 19/2/19, e poi ripreso dal portale Israele.net del 15 febbraio, col titolo “Quell’ebreo vittima del terrorismo, ricordato grazie agli onori tributati ai suoi assassini”.
Nel pezzo viene ricordato uno dei più brutali ed efferati omicidi perpetrati dal terrorismo palestinese, ai danni di un ragazzo di 20 anni, Avraham Bromberg, che ebbe l’ardire, nel fare l’autostop, di accettare un passaggio da parte del conducente di un’auto con targa israeliana. Bromberg notò che l’autista e l’altro passeggero erano arabi israeliani, ma non ritenne di dovere avere paura. Perché mai avrebbe dovuto? Erano israeliani come lui, non certo cittadini di uno Stato nemico. Perché mai sospettare di loro solo perché erano arabi? Ma i due, Karim Younes e suo cugino Maher Younes, lo sequestrarono, gli spararono alla testa a sangue freddo e lo gettarono in un fosso lungo la strada. Alcuni giorni dopo Avraham morì per le ferite riportate. I cugini Younes vennero arrestati, processati e condannati all’ergastolo.
Il fatto accadde nel 1980, ormai 39 anni fa, e suscitò, comprensibilmente, esecrazione, sdegno e rabbia nell’intero Paese (non certo nel resto del mondo). Ma, in una società condannata a convivere con una serie infinita di lutti e di tragici ricordi, e obbligata, ciò nonostante, ad andare avanti, a guardare al futuro, il tempo, inesorabile, avrebbe da tempo calato una coltre di oblio sulla tragica fine di quel ragazzo che volle fidarsi di quei due suoi coetanei. E così, al di là dei familiari superstiti della vittima, al giorno d’oggi nessuno, scrive Flatow (particolarmente sensibile alla questione, dato che, nel 1995, anch’egli ha perso una figlia, Alisa, trucidata dai terroristi palestinesi, all’età di 20 anni, la stessa di Bromberg al momento della morte), si ricorderebbe più di lui. “Qui sarebbe finita la storia – scrive l’analista -, per quanto riguarda l’opinione pubblica generale, compresa quella ebraica. Alcuni degli israeliani più anziani ricorderanno ancora il suo nome, ma il numero di persone – ebrei e non ebrei – che ricordano chi fosse Avraham Bromberg si può contare sulle dita delle mani. E il numero di organizzazioni e gruppi, dentro e fuori Israele, che hanno mai menzionato il nome di Bromberg […] è pari a zero”.
Come si vede, ho usato il condizionale: “il tempo avrebbe calato…”, “nessuno si ricorderebbe…”. Perché, in realtà, non è così. La memoria di Bromberg è tenuta perennemente accesa, non sbiadisce, e resterà nitida tale per chi sa quanto tempo, ancora chi sa per quanti decenni o secoli.
Come mai?
Bromberg non viene dimenticato, perché, spiega Flatow, a tenerne viva la memoria provvede, con incredibile tenacia e perseveranza, l’Autorità Palestinese, attraverso le periodiche celebrazioni riservare ai suoi assassini, che, indirettamente, inducono a ricordare anche il nome del giovane autostoppista che, in nome della Palestina, fu ucciso e gettato in un fossato dai combattenti per la libertà. Due settimane fa, per esempio, si è svolta una cerimonia in onore di Karim Younes presso il Ministero della Pubblica Istruzione palestinese, presieduta dal Ministro in persona, Sabri Saidam, che ha definito la riunione come “un gesto di lealtà verso il prigioniero Younes e la sua famiglia”, aggiungendo che portava alla famiglia Younes “i saluti della dirigenza palestinese e dei membri del Comitato Centrale di Fatah”, consegnando alla madre dell’assassino, come premio per l’eroismo di suo figlio (definito uno dei “simboli che hanno difeso l’impresa nazionale”) una targa con la foto di Arafat.
E non è stato un caso isolato. Qualche giorno prima, un’Università dell’Autorità Palestinese ha assegnato a Karim Younes un certificato d’onore, un programma della tv ufficiale dell’Autorità Palestinese ha ripetutamente trasmesso interviste, piene di ammirazione, ai familiari dell’assassino, l’anno scorso Abu Mazen aveva nominato il “prigioniero” Karim Younes membro del Comitato Centrale di Fatah.
E all’altro assassino, il cugino Maher Younes, l’anno scorso, l’Autorità Palestinese ha intitolato una piazza nella città di Tulkarem, in un’affollata cerimonia nella quale il funzionario dell’Autorità Palestinese Isam Abu Bakr ha proclamato: “Siamo orgogliosi di questo grand’uomo, di questo combattente, di questo condottiero”.
E così, nell’assistere a questa continua glorificazione dei suoi carnefici, anche gli israeliani, loro malgrado (“per una torsione crudele e beffarda della storia e della morale”, scrive Flatow) sono “costretti” a ricordare Avraham Bromberg.
L’articolo di Flatow lascia sgomenti per il suo tristissimo, tenebroso significato. Accanto alla Memoria, quel valore positivo e indispensabile in cui mostriamo di credere, c’è anche, dunque, una “contromemoria”, una “memoria al veleno”, che, attraverso l’esaltazione degli assassini, tiene vivo, come una fiaccola nera e satanica, anche il nome delle vittime. Avraham e Alisa sarebbero ormai ricordati solo dai loro familiari, ma Satana non è d’accordo. Tutti devono sapere che c’è chi gioisce per il fatto che sono stati uccisi, e i loro nomi, perciò, non devono essere dimenticati. E – fatto più sconcertante di tutti – la “memoria satanica” sembra più forte, più energica di quella, diciamo così, “normale”.
Non sappiamo come sarà, se mai ci sarà, il futuribile Stato palestinese, che tanti fanno finta di desiderare. Ma una sola cosa è certa: pressoché ogni giorno, in esso, sarà tenuta ben viva la fiaccola della “memoria”. Altro che Giorno della Memoria, Yom ha-Shoah e Yom ha-Zikorà, che cadono solo una volta all’anno.

Francesco Lucrezi, storico