JCiak – Un quartiere ebraico da Oscar

La vittoria dell’israeliano Guy Nattiv con il corto Skin, storia di un suprematista bianco ucciso dal suo stesso odio; il premio per la migliore sceneggiatura a Spike Lee per BlacKkKlansman, storia di due detective – uno nero e l’altro ebreo – che s’infiltrano nel Ku Klux Klan; il trionfo di Black Panther, supereroe nato dalla fantasia di due artisti ebrei, Stan Lee (Stanley Lieber) e Jack Kirby (Jacob Kurtzberg), padri anche dei Fantastici Quattro, Hulk e Iron Man. E, perché no, Barbra Streisand, che dal palco rilancia la sfida contro l’odio e i razzismi.
Gli Oscar quest’anno sono stati generosi di spunti ebraici, anche se il più curioso è passato un po’ sotto silenzio. Il quartiere dove Alfonso Cuaròn ha ambientato il suo bellissimo Roma, vincitore di tre Oscar, non solo è quello dove il regista è cresciuto ma è stato uno dei centri della vita ebraica a Città del Messico.
Il film, che segue le vicende di una famiglia borghese e della loro domestica indigena (la bravissima Yalitza Aparicio) negli anni Settanta, si snoda fra palazzi ormai in leggero degrado e l’animazione di strade piene di gente, traffico, luci. Una fisionomia che ancor oggi reca il segno dei migliaia di ebrei siriani che per una generazione hanno vissuto qui.
Si sono insediati nel quartiere fra gli anni Venti e Cinquanta, quando l’arrivo degli ebrei dall’Est Europa, per lo più poveri e in cerca di fortuna, li spinge a lasciare il centro città. Ormai affermati economicamente, si spostano a Roma, un vicinato middle class più adatto alle loro nuove esigenze.
La zona si era sviluppata all’inizio del Novecento, nell’area che un tempo era un insediamento azteco, per impulso di Walter Orrin, un inglese artefice del primo circo messicano alimentato ad elettricità. E’ lui che decide di chiamarla Roma, nota Alan Grabinsky su Jta, in onore della città che ha dato i natali all’arte circense.
I suoi edifici stravaganti, che rimescolano gotico e art deco in salsa tropicale, attirano la créme della società messicana. Dopo la Rivoluzione messicana, tra il 1910 e il 1917, quando i palazzi iniziano a decadere e il gusto cambia, l’aristocrazia migra verso altre mete. Mentre Roma diventa un’aspirazione middle class, gli ebrei siriani accorrono in massa.
L’area diventa sede delle loro due comunità – quella originaria di Aleppo e quella di Damasco. “Dal 1930, la comunità dei siriani di Aleppo riproducono a Roma le abitudini della madrepatria, con i loro negozi e panetterie. Di fatto fino al 1930 nel quartiere si sente parlare arabo” spiega a Jta Monica Unikel, esperta di storia ebraica locale.
L’esodo inizia a metà degli anni Cinquanta, quando gli ebrei siriani migliorano ulteriormente la loro posizione e si spostano a Polanco, un quartiere migliore. Negli anni Settanta – il periodo in cui si svolge il film di Cuaròn – “la Roma”, come la chiamano i messicani, è svuotata della sua vita ebraica.
Oggi il quartiere, devastato nel 1985 da un terremoto, sta ritrovando il suo antico splendore. È popolato da artisti, intellettuali e attrae frotte di turisti. I suoi caffè e le boutique sono sempre affollati e il film di Cuaròn non farà che moltiplicare l’effetto all’infinito.
La comunità ebraica però è ormai lontana, insediata nei suburbi che secondo il modello americano hanno circondato Città del Messico. A tenere in vita il retaggio ebraico è un piccolo gruppo, che si ritrova ogni Shabbat per lo shachrit nella maestosa sinagoga Queretaro. E poi, ci sono i più giovani.
Qualche anno fa ha aperto nel quartiere una Moishe House – un’iniziativa nata negli Stati Uniti che ormai raggiunge 27 paesi. La sede di Città del Messico (“Zen, Hipster and Natural”, come la definscono i suoi animatori) ospita giovani ebrei: invece di pagare l’affitto si organizzano cene di Shabbat e altri eventi. È troppo presto per parlare di ripresa, ma l’iniziativa ha un gran successo. E lascia sperare che un giorno “la Roma” finisca per ritrovare la sua anima ebraica.

Daniela Gross

(28 febbraio 2019)