L’uno vale l’altro

Abbiamo a che fare con il sogno di una riscossa da parte di una maggioranza un tempo definita «silenziosa», ed ora invece chiassosa, che si pensa come una sorta di onda montante quando invece rischia di rivelarsi nella sua natura di orda di atomi senza legame. Il discorso maniacale contro le aborrite élite – quelle di ogni genere, a partire dalle leadership politiche – si sta traducendo nel miglior viatico per la loro continuità nei tempi a venire. Poiché non si è tradotto in nessuna alternativa politica ma solo nella lamentosità dell’eterna indignazione, alla fine della fiera priva di qualsiasi capacità propositiva. La commistione tra improvvisazione (non occasionale ma continuativa); assordante elogio dell’impreparazione; diffidenza diffusa nei confronti di qualsiasi forma di competenza ma anche spietata autopromozione da parte di piccoli gruppi in cerca di mobilità sociale e ascesa pubblica; svuotamento di significati e contenuti della politica ridotta a insieme di promesse incongrue e spesso solo fantasiose; sostituzione del principio di realtà (per quanto sgradevole possa essere) con una serie di estenuanti messe in scena puramente finzionali, è l’insieme delle procedure attraverso le quali si sta svuotando la democrazia rappresentativa delle sue funzioni. Non è tanto «l’uno vale uno» bensì l’uno vale l’altro la vera logica di questi tempi. In un gioco di finta intercambiabilità continua dove il Parlamento è descritto come un organismo oramai anacronistico ed inutile, un “costo” che andrebbe defalcato, secondo una logica della politica puramente contabile (anche solo per fare un esempio tra i molti possibili). Il «sovranismo», o come lo si preferisce chiamare, all’angoscia della mancanza di fisionomie chiare nei rapporti di forza sostituisce l’illusione di potere contenere la dirompenza di una globalizzazione incontrollata con l’identificazione di nuovi confini, perimetrando tutto quello che è indicato come “altro”, estraneo, quindi potenzialmente dannoso. È per l’appunto il sogno di un’illusione riparatoria, anche se esso concretamente si traduce invece nell’incentivare le diseguaglianze già esistenti (contro le quali afferma invece di volersi adoperare), stabilendo nuove gerarchie sociali, economiche e di relazione nelle collettività nazionali attraverso l’imperativo etnico. D’altro canto, ciò che si prospetta a livello internazionale non è il ritorno in forza degli Stati nazionali, spesso svuotati di capacità contrattuale e quindi obbligati ad una sorta di azione inerziale rispetto ai grandi problemi della contemporaneità (tassazione delle grandi ricchezze prodotte dall’economia della conoscenza e dell’informazione; lotta alla gig economy laddove questa è solo precariato e – quindi – sgretolamento della coesione sociale; governo dei processi migratori e così via) ma piuttosto di quelle che certa sociologia chiama efficacemente «città globali». Un numero crescente di metropoli mondiali, nelle quali sempre più spesso si addensa la popolazione in crescita, sono ora i veri centri dei mercati transnazionali e dell’economia globale. Ad esempio Pechino, Los Angeles, Tokyo, Shangai, New York, Londra, Mumbai, Milano ma anche, fatte le debite proporzioni, Tel Aviv. Di fatto esse fungono da fuoco di richiamo per capitali, merci, servizi ma anche e soprattutto manodopera. Sono quindi centri di potere, ovvero i luoghi delle vere decisioni. Ancorché caratterizzate dal continuare ad appartenere a nazioni diverse, le città globali – intese come vere e proprie entità autonome – condividono maggiori caratteri in comune tra di loro che non con i rispettivi contesti regionali e nazionali. Sono il punto di intersezione tra conoscenze, circolazione di dati e risorse, uomini e denari. L’interconnessione economica reciproca contribuisce a slegarle sempre più spesso dai territori limitrofi, che invece conoscono, subiscono e pagano gli effetti meno premianti dei processi di globalizzazione. Piuttosto che una perduta sovranità nazionale, alle ricerca della quale si rischia di mettersi inutilmente all’opera, sarebbe quindi il caso di ragionare su quale sia la natura del potere che si concentra in questi nuovi protagonisti della scena collettiva, per comprendere anche quali siano le strategie per evitare che le diseguaglianze erodano drammaticamente i legami tra società e comunità.

Claudio Vercelli

(3 marzo 2019)