Memoria, uno sguardo al femminile
Donne e deportazione è il tema scelto dall’As.S.E.T., Associazione Ex Allievi e Amici della Scuola ebraica di Torino, alla vigilia dell’8 marzo. Una serata per far luce su una vicenda in particolare: quella dell’arresto di venti anziane donne ebree torinesi, che vennero trasferite dall’ospizio israelitico di piazza Santa Giulia, bombardato, al Ricovero comunale e dà lì prelevate e condotte alle Carceri Le Nuove, nel braccio femminile gestito dai fascisti. Più microstorie nella Storia ricostruite nella loro fase embrionale da Nicola Adduci, docente di storia e letteratura italiana e ricercatore presso l’Istituto Storico della Resistenza di Torino, che ha analizzato la documentazione recentemente digitalizzata del carcere, raffrontandola con le fonti e gli elenchi contenuti nel Libro della Memoria. Un primo passo che permette di aggiungere nuovi elementi di rilevanza storica: i dati raccolti da Adduci verranno poi condivisi con il CDEC, il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea.
Le singole vicende di queste donne di età compresa tra i 60 e gli 80 anni, per lo più persone vedove o nubili, anziane e indigenti, si uniscono venendo a costituire un unico gruppo che a più riprese viene arrestato una prima volta nel dicembre del 1943, poi in parte liberato, ed infine riarrestato nel marzo del 1944. “I documenti da me analizzati, fanno riferimento esclusivo al braccio del carcere femminile gestito dai fascisti. Diverso il destino dei documenti relativi al braccio tedesco quasi completamente andato distrutto per non lasciare traccie sul finire della guerra”. Ciò su cui cerca di far luce Adduci è l’ambiguità che emerge dalle carte rispetto alla gestione delle detenute, arrestate e liberate a più riprese, senza specificarne il motivo preciso, se non quello anagrafico. La stessa registrazione avviene con modalità differenti dalla norma: ad esempio, continua Adduci, di nessuna vengono prese le impronte digitali, forse perché in fondo si era quasi certi che non avrebbero avuto le energie per tentare una qualsiasi forma di fuga. Le ambiguità e le anomalie sono molte e riguardano altre incarcerazioni, tutte documentate, che fanno rifermento ad un arco temporale compreso tra il ‘43 e il ‘45, ma che restituiscono altre microstorie dai molti elementi incompressibili, perché dopo il passaggio alle Nuove non ci sono altre tracce, se non un uso del termine scarcerazione inteso come passaggio di consegne a ignoti, quindi un mero scarico di responsabilità. “I singoli episodi vanno quindi inquadrati in una più ampia cornice”, prosegue, “che permette di avanzare ipotesi rispetto alla specificità del braccio del carcere in questione, forse più permeabile e più corruttibile degli altri”. Ipotesi che si basa sull’analisi delle carte da cui emergono “strani giochi di arresti e scarcerazioni, luci e ombre delle fonti, incoerenze”. Tutti elementi che lo stesso Bruno Maida, ricercatore di Storia Contemporanea presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università di Torino, e secondo relatore della serata, ha ricondotto al periodo convulso e poco definito in cui il fascismo si trova nel corso del 1943. “Mesi confusi e complicati, in cui regna poca coordinazione tra le diverse parti d’Italia, questo coerentemente con il fatto che il meccanismo di deportazione non va pensato come un processo lineare, ma è pieno di buchi che lo rendono disomogeno e quindi complesso da analizzare storicamente”.
L’intervento di Maida si sposta dal particolare al generale per tracciare le specificità della deportazione femminile, un segmento preciso di vittime a cui si è data poca visibilità. A tal proposito ricorda il primo convegno dedicato a questa tematica, organizzato dall’ANED proprio a Torino, ma solamente all’inizio degli anni Novanta. A cui seguì quello di Ravenna vent’anni dopo. Bisogna attendere il 2010 per la pubblicazione di un’opera complessiva: “Le deportazioni femminili dall’Italia fra storia e memoria”, di Alessandra Chiappano e curata da Bruno Maida e Brunello Mantelli. Il focus si sposta quindi sulle specificità delle internate donne, a partire dalla prima grande distanza rispetto alla condizione maschile: il rapporto con il proprio corpo, che rimandava ad una sfera privata se ci si rifà alla concezione di pudore delle donne degli anni 30-40. “Una sfera privatissima improvvisamente messa in pubblico in modo brutale”, spiega Maida. Altra specificità riguarda il tentativo della conservazione della femminilità all’interno del campo, un richiamo a una sorta di vita normale o al passato che viene conservato. Maida ricorda ad esempio l’insistenza sul racconto delle ricette tra le internate. Ancora un tipo specifico di solidarietà nel lager, più marcata rispetto a quella maschile. E poi ancora il corpo femminile debole e la violenza sessuale che molte hanno dovuto subire, anche una volta liberate, nella presunta “tregua”. Ed infine le insinuazioni silenziose ma pesantissime alle poche sopravvissute, come se avessero scambiato la propria vita in cambio di cosa? Un’analisi quella di Maida, incisiva e priva di ombre, che invita il pubblico a ragionare sulla specifica condizione della donna in un contesto come quello della deportazione, ben lontano da una qualsiasi forma velata di femminismo benevolo.
Alice Fubini
(8 marzo 2019)