La “logica abduttiva”
Un volume edito in America (Hitler and Abductive Logic. The Strategy of a Tyrant, Lanham, Boulder, New York, Toronto, Lexington Books, 2014) e ora tradotto in Italia (Ben Novak, La logica di Adolf Hitler – Immaginazione, razionalità, politica, a cura di Vincenzo Pinto, edizioni Free Ebrei – Gennaio 2019) consente di guardare al passato per (cercar di) capire il presente e di scongiurare il futuro.
L’opera mira a carpire il segreto del fascino di Hitler, anche se la sorpresa potrebbe risiedere nella mancanza del segreto stesso. La fedeltà a Sir Alfred Hitchcock imporrebbe anche in questo caso di abdicare dal whodunit, mettendo bruscamente le carte in tavola: in questo caso forse ha ragione Hanna Arendt, perché il segreto è che non c’è segreto, la sorpresa è la mancanza di sorpresa e la genialità del personaggio riguarda la sua banalità tendente verso il basso. Condizioni necessarie ed evidentemente sufficienti per intercettare i gusti delle masse, le quali masse sembrerebbero il sottoprodotto di un energico cocktail emerso da uno shaker con pari porzioni di Max Weber e di Daniel Goldhagen. Il nostro commento è assai scorretto, certo, ma non sembra che i destinatari (i c.d. ariani puri dell’epoca) meritino eccessivi complimenti.
Il titolo italiano del libro è diverso all’originale, perché omette il riferimento alla logica abduttiva, forse per non rendere eccessivamente difficile l’identificazione dello scopo del lavoro. Al riguardo, apprendiamo che “l’approdo – ovvero la conclusione logicamente prodotta – di una induzione è una sintesi, quello di una deduzione una tesi, quello di un’abduzione un’ipotesi” (S. Zingale, il ciclo inferenziale). Nel volume di Novak si legge che “l’essenza dell’abduzione è la stranezza. L’abduzione comincia quando affrontiamo premesse strane, inattese e inspiegabili”. La quale abduzione (Frixione, 2007) consisterebbe nel “ragionamento attraverso il quale, partendo da alcuni fatti che si vogliono spiegare (premesse), si cerca di individuare una possibile ipotesi”. Ossia, l’ipotesi finisce per fondersi e confondersi con la conclusione.
Un altro elemento portante del saggio riguarda lo straordinario influsso esercitato da Karl May su Hitler, il quale May era una sorta di Emilio Salgari tedesco, creatore di personaggi quali Old Shatterhand, al quale si sarebbe ispirato Francis Striker, autore del Lone Ranger (‘Il Cavaliere Mascherato’), un personaggio di grande successo creato nell’America dei primi anni Trenta. Si trattava di un giustiziere accompagnato dal suo fedele compagno indiano, chiamato Tonto e che sparava con proiettili d’argento. Trattandosi di un’icona americana, vediamo che in Radio Days, Woody Allen fanciullo ruba le monetine dal bussolotto del Keren Kayemeth per comperarsi i gadget del Lone Ranger e, quando lo scoprono, risponde al Rabbino che lo redarguisce col suo inglese gravato da un pesante accento straniero, trattandolo come l’indiano Tonto: “you speak truth, my faithful Indian companion”; addirittura in Argentina, perfino i personaggi di Mafalda ne traggono ispirazione.
Nel saggio, si apprende che “Charlie (Old Shatterhand) fu il modello di Hitler”, come dire che il dittatore si basava sulla logica abduttiva del Cavaliere Mascherato. Un poco come dire che la nostra società sta dimostrando che dedicarsi allo studio (eventualmente conseguendo la laurea dell’obbligo) non è inutile, il che comporterebbe un mero spreco di tempo, ma è addirittura dannoso assai.
Non vogliamo scomodare in tutto l’eterogenesi dei fini, semmai soltanto nella misura necessaria per consigliare la lettura di questo libro, che aiuta a spiegare come sia facile addivenire alla rovina fascistizzante del prossimo e, volendo, anche a quella propria. È il degno completamento dell’opera di Hanna Arendt, senza che vi sia, però, la mesta colpevolizzazione della vittima che contraddistingue l’amata del filosofo nazista Martin Heidegger. Se si volesse capire dove e come viviamo, questo libro potrebbe recare un robusto aiuto.
Emanuele Calò, giurista