I nostri antenati

“Te la ricordi la zia Esterina che si era imbarcata per il Venezuela nel ‘38? E il Carlo di Trieste che dopo aver fatto la guerra per Cecco Beppe finì in un kibbutz in Palestina? E che dire dello zio Alberto che da Chicago telefonava sempre prima delle feste per fare gli auguri?”.
È nota la passione genealogica che anima molti ebrei. Ci sono quelli che come antenati vantano illustri accademici, rabbini e capitani d’industria e chi deve accontentarsi di maestri e commercianti; ma tutti o quasi tengono moltissimo a sciorinare agli altri il proprio albero genealogico, magari alla ricerca di remote parentele comuni oppure nel tentativo di riempire le caselle rimaste vuote. Sono “nobili” e “inerti” come i gas rari gli antenati che per secoli hanno vissuto in piccoli centri del Piemonte – un esercito di zie e zii che prende vita magnificamente in uno dei racconti più belli di Primo Levi, “Argon”, con cui si apre “Il sistema periodico”. Tempo fa mi aveva scritto una simpatica signora di Haifa che sosteneva di avere parenti in comune con me: aveva ragione, a patto di spostarsi nella Reggio Emilia del primo Ottocento. Dal canto mio ho riempito un paio di fogli con le informazioni che sono riuscito a ottenere, ma fanno una magra figura se confrontati con i papiri lunghi metri in cui mi è capitato di imbattermi, con genealogie talvolta corredate addirittura da stemmi a imitazione di quelli delle casate nobiliari. Non mancano naturalmente gli esperti in grado di mappare non solo secoli di discendenza famigliare, ma anche la diffusione di un intero nucleo ebraico o di un cognome disperso ai quattro angoli del globo.
Di questo esercizio offre un esempio la raccolta di racconti di Giorgio Pressburger intitolata “L’orologio di Monaco”, pubblicata nel 2003 da Einaudi. Pressburger muove alla ricerca di parenti veri o presunti – sulla base di un cognome comune o una località di origine – e ne rintraccia di illustri, da Heine a Marx a Mendelssohn, e di umili come lo zio ferroviere e perfino una fervente buddista residente a Vancouver, British Columbia.
In un racconto incontra Kevin, nipote del grande e dimenticato regista ungherese naturalizzato britannico Emeric Pressburger.
“Ma tu, cosa ti senti? British o centro europeo?” domandò mio figlio.
“British”, replicò Kevin senza un attimo di esitazione. “E tu?”
“Non lo so”, disse mio figlio. “Vivere a Trieste è già un elemento di confusione. Qui siamo in Italia, ma in questa città c’è tutto. Io sono figlio di un ebreo ungherese, originario della Slovacchia, e mia madre è italiana con un cognome sloveno. Io cosa sono? Non lo so. E ti dirò, non m’interessa saperlo. Sono. Sono. E basta”.

Giorgio Berruto

(21 marzo 2019)