Ius soli e “super-italiani”
A chi appartiene la cittadinanza? La logica e l’umanità ci spingono a sostenere una linea costruttiva e a rispondere: a chi vive e opera positivamente nel paese identificandosi di fatto con la sua realtà. Il buon senso ci porta ad aggiungere: accanto a chi comunque è nato e cresce in una determinata realtà nazionale, a prescindere dalle sue origini familiari.
E allora, se ci affidiamo alla logica all’umanità e al buon senso, perché il percorso di affermazione del cosiddetto “ius soli” è così accidentato?
A confondere le idee sulla sostanza di un tema oggi assolutamente centrale, da una parte e dall’altra emergono motivazioni politiche, di fondo e contingenti: l’ideologia garantista della sinistra contro il territorialismo tradizionalista della destra; l’anti-populismo universalista della sinistra contro il sovranismo-populismo italianista della destra al potere (perché certo anche il Movimento Cinque Stelle è destra, qualunque cosa se ne dica…). Al problema ideale e sociale di fondo si sovrappongono cioè da entrambe le parti considerazioni di puro opportunismo legate a considerazioni di potere, all’immagine emergente sui mass media: aspetti che riguardano la partita politica attualmente in corso, e che non dovrebbero pesare su una questione di diritti.
Torniamo invece all’argomento e facciamo un gioco di introspezione sociale, psicologica e politica: proviamo a capire cosa disturba chi rifiuta l’adozione dello ius soli.
La non italianità della famiglia d’origine di chi ha diritto a beneficiarne è probabilmente avvertita da alcuni come una sorta di “diminutio capitis” della propria secolare italianità; come se il diritto di cittadinanza fosse una questione esclusivamente genetica e territoriale, legata al “Blut und Boden” di nazista memoria.
La mancanza di “radici” e di “cultura familiare originaria” in Italia è vista come una tara che rende impossibile ab ovo ogni appartenenza alla nazionalità italiana; la questione viene posta qui cioè sul piano storico-tradizionale.
L’incertezza sul futuro “italiano” di chi ha origini familiari diverse pur essendo nato qui potrebbe pregiudicare la possibilità di una vera, duratura appartenenza nazionale.
La mancata stabilità nel tempo della residenza italiana, dunque (senza radici alle spalle, con un futuro incerto nel paese), non darebbe terreno abbastanza solido per concedere la cittadinanza.
Ma forse dietro i pareri contrari si affacciano le riluttanze di chi ne fa addirittura una questione di pelle e di struttura fisica: senza volerlo ammettere, c’è che storce il naso all’idea di avere bambini italiani neri e “diversi” dalla nascita.
Si tratta di obiezioni diverse, alcune aberranti e inconfessabili, altre apparentemente più sensate; tutte a mio parere possono essere smentite:
– L’idea di “essere sminuiti” nella propria italianità se si dà la cittadinanza italiana a chi è nato qui ma ha origini familiari altrove cela un complesso di inferiorità; al contrario, è dalla collaborazione degli autoctoni di lunga data con nuovi convinti italiani che nasce una società meno arroccata, più aperta e disponibile, più moderna, più capace di guardare all’internazionalità come a un valore.
– Le radici sono molto ma non sono tutto; sono solo una parte di una complessa realtà attuale. Le radici stesse, oltretutto (cioè le situazioni del passato), spiegano che la storia italiana è stata evoluzione, cambiamento con immissione di elementi nuovi provenienti dall’esterno, e non assoluta immobilità. Ciò è provato, fra l’altro, dalla storia e dall’inserimento degli ebrei nella realtà italiana avvenuto nei secoli passati: una fusione graduale, completa, piena che ha finito per renderci del tutto italiani.
– Perché incertezza? Perché “mancanza di garanzie”? Solo se si ha un’idea di italianità rivolta esclusivamente al passato si può formulare tale obiezione: in questa ottica, chi è nuovo ed educato a una cultura “altra” farebbe fatica a identificarsi “solo” con l’italianità del passato. Ma l’errore qui è in quel “solo”. Se essere italiani è fondere le ricche radici culturali con uno sguardo proiettato sul futuro, allora si può avere fiducia che i “nuovi” italiani acquisiscano la cultura del passato italiano facendola progressivamente propria, proiettandosi altresì in avanti con un senso di appartenenza/identità italiane pienamente posseduto. Saranno anzi capaci di dare alle radici italiane un nuovo stimolo, arricchendole.
– La mancanza di stabilità, in tale senso, sarebbe esattamente il frutto possibile di una non accettazione dello ius soli; adottarlo significherebbe invece proprio dare fondatezza e saldezza a un ritrovato e più valido senso di appartenenza collettiva.
– Quanto al razzismo latente dietro tutto ciò, al rifiuto nascosto di altri colori accanto al nostro, forse lo sdegno per un fenomeno di nuovo in crescita può essere più adeguato di una contro-argomentazione, che però esiste nei fatti: la popolazione italiana è già piena di altri colori; rifiutare la commistione significa rifiutare una realtà esistente.
Tentando di muoversi sul piano psicologico e sociologico, questo piccolo esame per punti suggerisce una nuova forma di rifiuto che sta forse affiorando in Italia, una sorta di razzismo/non razzismo, che si vergogna di apparire come tale ma in sostanza opera in modo analogamente selettivo ed esclusivista: di qua i “veri” italiani, di là “gli altri”. Lo slogan “prima gli italiani” esprime alla perfezione questa mentalità, anche nel settore della cittadinanza.
Un concetto, quello di cittadinanza, sul quale è forse necessario soffermarsi a riflettere. Essa non è solo figlia della storia, ma della società presente, dell’impegno e delle capacità attuali impiegate nel e per il paese; soprattutto, cittadinanza non è, non deve essere fatto “razziale”, ma culturale e sociale, costruito con intelligenza capacità impegno positivi. Perché mai dovrebbe rimanere solo un fatto biologico?
Da Israele ci giunge un esempio positivo: quello di un melting pot complesso e difficile, ma funzionante, in cui varie e diverse realtà – rispetto alle quali l’ebraismo fa da collante – trovano un punto di riferimento e un’espressione costruttiva comune, chiamato Stato di Israele. Il caso critico qui è quello degli ebrei etiopici e del loro non facile assorbimento nella società israeliana. Alcuni li hanno emarginati, alcuni forse continuano a farlo; ma con l’Operazione Mosè lo Stato li ha salvati a migliaia, e da allora ha operato e opera con forza istituzionale per la loro integrazione nella società israeliana, promuove la loro partecipazione a pieno livello. Una mostra e una serie di interviste attualmente visibili a Bet ha Tefutzot (a cura della regista Orly Malessa) testimoniano la situazione attuale di questa minoranza di una minoranza: le difficoltà e i traumi non sono del tutto superati, ma l’impegno e lo spirito costruttivo che li caratterizza, assecondati dalle strutture del Paese, stanno ottenendo risultati esemplari.
David Sorani
(2 aprile 2019)