La normalità eccezionale di Israele

lucreziL’esito delle recenti elezioni politiche israeliane, com’è noto, è stato ampiamente e variamente valutato, da una molteplicità di osservatori. Ed è difficile, nel formulare, a mia volta, un piccolo commento, resistere ai condizionamenti esercitati da questo profluvio di parole. Di fronte alla massa di giudizi registrati sui mezzi di informazione nostrani – improntati, in larga maggioranza, a sentimenti di delusione, sconforto, irrisione, disprezzo nei confronti del verdetto espresso dagli elettori israeliani -, infatti, è davvero difficile frenare una reazione di segno opposto, ossia trattenere il desiderio di dire che l’esito delle elezioni è stato stupendo, meraviglioso, che siamo felicissimi, e che tutti i commenti critici vanno buttati, senza distinzione, nella pattumiera della spazzatura antisionista. È un istinto comprensibile, umano, che provo anch’io, e che diventa ancora più potente se vado a cercare qualche parallelo nei commenti riservati alle limpidissime e democraticissime elezioni che si svolgono nei Paesi che circondano Israele, o alle “non elezioni” palestinesi, da tutti considerate la cosa più normale del mondo.

Ma resisto a questo istinto. Come ho detto prima delle elezioni, continuo a non fare il tifo per nessuno, se non per la democrazia d’Israele. Faccio gli auguri più sentiti ai vincitori – anzi, al vincitore -, e auguro sinceramente buon lavoro e buona fortuna agli sconfitti, a cui sempre, per indole e temperamento, mi sento vicino. Onore delle armi, in particolare, al quasi scomparso partito laburista, erede decaduto della nobile tradizione di Ben Gurion, Moshe Dayan, Golda Meir, Itzhak Rabin, Shimon Peres. Millenni di tradizione rabbinica insegnano che le “dissenting opinions” sono sempre preziose e indispensabili, un verdetto espresso all’unanimità può essere annullato in quanto ingiusto, per non avere dato adeguato spazio alle voci di minoranza.

Il grande demografo Sergio Della Pergola – la cui lucida voce mi auguro (e con me tanti) di potere presto ricominciare ad ascoltare regolarmente su queste pagine -, in un’intervista apparsa, su questo notiziario, il giorno successivo alle lezioni, ha scritto che il loro esito starebbe e dimostrare che Israele somiglia sempre di più agli altri Paesi occidentali, giacché anche le sue vele paiono gonfiate dal medesimo vento che pare oggi andare per la maggiore in Europa e in America: “La chiave di lettura è che Israele è un paese normale, che non è isolato dal mondo e riflette quindi le sue tendenze. Come negli altri Stati, anche Israele si spinge sempre più verso il nazionalpopulismo”. Starebbe diventando, quindi, semplicemente, un Paese ‘normale’, e bisogna prenderne atto.

Credo che Della Pergola abbia ragione. L’idea della ‘normalità’ di Israele, forse, potrebbe portare un po’ di malinconia in chi ha sempre voluto credere che quel Paese sia invece qualcosa di diverso, e lo ama proprio per la sua (vera o presunta) diversità. L’amore non finisce forse quando, un bel giorno, ci accorgiamo che quella persona (che fino a ieri ci era sembrata unica al mondo, eccezionale, diversa da tutto e da tutti) non è altro che un individuo tra tanti, con i suoi pregi e i suoi difetti? Si può amare qualcuno, o qualcosa, considerandolo normale, come tutti gli altri?

Ma la ‘normalità’ di Israele può anche essere letta in un modo diverso. Quando fu pronunciata la Dichiarazione d’Indipendenza, 71 anni fa, sembrò davvero che i miracoli potessero realizzarsi, che la storia si potesse spezzare; e si pensò che, dopo l’abisso della Shoah e la sconfitta delle forze delle tenebre, un altro miracolo si potesse compiere, quello di una patria del popolo ebraico armoniosamente inserita nella famiglia delle nazioni, in pace col mondo e con tutti i suoi vicini. Micidiali guerre di distruzione, incessante terrorismo sanguinario, martellante propaganda d’odio hanno logorato, ma non soffocato questa speranza: il popolo d’Israele, per almeno mezzo secolo, ha continuato a sperare, condividendo, quasi all’unisono, le parole di Rabin: “mai stanchi di difendersi, mai stanchi di cercare la pace”. Ed è stata questa la vera eccezionalità d’Israele: continuare a credere che anche in quella regione martoriata dove è chiamato a vivere potessero essere pronunciate, un giorno, non solo dagli ebrei, parole di ragionevolezza, di ‘normalità’, basate su una ragionevole, ‘normale’ accettazione dell’altro.

Ma questo ha continuato a non accadere. E, a un certo punto (troppo presto? troppo tardi?), qualcosa è cambiato nel cuore del Paese. Ci si è arresi a una dura realtà, che pareva dire, con dure parole, che questa ragionevolezza e questa normalità – e, con essa, la pace – non sarebbero arrivate mai. E ci si è quindi rassegnati a convivere – chi sa per quanto – con l’eccezionalità della guerra, della minaccia, del pericolo. Dopo il tradimento di tante promesse, il crollo di tante illusioni, è venuta meno la speranza in un futuro diverso, e si è cronicizzata la paura che i cambiamenti – come tante volte è accaduto – siano destinati a risolversi in peggioramenti, possano portare conseguenze nefaste. Non solo, anzi, l’idea di un futuro diverso è andata dileguandosi, ma è scemata, man mano, la stessa idea di futuro. Ci si aggrappa pertanto al presente, e si preferisce chi meglio promette di proteggere lo status quo.

La ‘normalità’ di Israele, quindi, può anch’essa apparire come una forma di eccezionalità, in quanto ‘normale’ accettazione (in tono più o meno rassegnato o trionfalistico) di una realtà eccezionale che si sa che non cambierà, e con la quale si deve e si dovrà convivere: oggi, domani e dopodomani.

Francesco Lucrezi, storico