Pesach, la nostra libertà

ravmomiAll’inizio del Seder di Pesach, nel momento in cui ci accingiamo a rivivere, “L’uscita dei figli d’Israele dall’Egitto”, leggiamo nel testo della Haggadà delle parole che possono segnare il filo conduttore per il rinnovarsi di questo passaggio dalla schiavitù alla libertà. Il brano si apre con un invito: “Chi ha fame venga e mangi, chi ha necessità venga e faccia Pesach (con noi)”. La libertà non è un bene che si risolva nel privato, non ci autorizza a chiuderci in noi stessi, la celebrazione del Seder ci ricorda che libertà è anche “invitare a fare Pesach”, cioè condividere con chi è materialmente privo del necessario per la festa, e coinvolgere chi, per circostanze della vita, si trova in solitudine, fisica o esistenziale. Dopo questo richiamo preliminare, il testo prosegue con delle affermazioni che possono apparire, nel presente, meno scontate: “Quest’anno qui schiavi, l’anno prossimo liberi, in terra d’Israele”. Cosa ci insegnano oggi queste antiche parole? Forse ci dicono che l’inizio della libertà, nel senso più profondo, può corrispondere al momento in cui ci rendiamo conto di esserne, almeno in parte privi. Siamo schiavi di condizionamenti esterni e di passioni interne che ci è difficile gestire, incominciamo ad essere liberi quando ci rendiamo conto che vorremmo essere qualcosa di diverso, quando sentiamo, ad esempio, che il mondo della Torà dal quale siamo spesso, apparentemente, lontani, è in realtà proprio quello, il nostro mondo, la nostra vita.
Siamo spesso schiavi di un mondo che ci vuole protagonisti e testimoni nella parte di chi ricorda le proprie tragedie ma ci vede con sospetto quando rispettiamo ed adempiamo le Mizvot, i Comandamenti della Torà, quando cioè testimoniamo la nostra vita invece che la nostra morte. Siamo sovente prigionieri di uno stereotipo che ci identifica (non solo dall’esterno) con l’immagine “dell’ebreo errante”, come se il meglio dell’ebraismo, dal punto di vista della sua profondità e ricchezza di vita, di pensiero e di contenuti spirituali, come se questo mondo dovesse identificarsi con qualcosa che è stato, che è concluso, con il passato di una diaspora che non è più e non fosse invece, come effettivamente è, un progetto sempre rivolto al futuro che si sviluppa nell’insieme di tutto il popolo ebraico, attraverso il costante legame e il confronto tra il mondo ebraico della diaspora e quello dello Stato d’Israele. Per questi e per altri motivi che dobbiamo comprendere, si può ben dire: “quest’anno – schiavi, l’anno prossimo liberi”, con uno speciale riferimento alla terra d’Israele.

Il testo della Haggadà per evocare l’auspicata condizione libertà usa il termine “benè chorin”, un’espressione che ci ricorda l’insegnamento dei Maestri in cui ritorna lo stesso vocabolo per affermare: “en lekhà ben chorin ella mi sheosek ba-Torà – Non è veramente libero se non chi si occupa della Torà” (Avot 6,1).Nella Torà impariamo ad essere veramente liberi, pienamente noi stessi, ovunque ci troviamo, come ebrei partecipi di realtà nazionali diverse, in ogni parte del mondo o come cittadini dello Stato d’Israele. Nella Torà impariamo a conservare la libertà, a partire dallo svolgimento di un giorno speciale come lo Shabbat, il Sabato, che è anch’esso “Ricordo dell’uscita dall’Egitto” (tanto più in questa occasione, in cui il primo e l’ultimo giorno di Pesach coincidono con lo Shabbat), il Sabato che esprime un dono di amore che il Signore ha dato al popolo ebraico ma anche fonte di speranza, per una libertà che il Signore desidera diventi un bene autentico per tutta l’umanità.

La libertà che si arricchisce per noi di sentimenti e di emozioni, nel legame profondo che avvertiamo con la città di Yerushalaim, nel cui richiamo di fede concludiamo la cerimonia del Seder di Pesach; quella Gerusalemme che sappiamo essere, proprio come capitale dello Stato d’Israele, luogo aperto e accessibile, di preghiera e di incontro per tutte le genti e per ogni fede. Questa è Cherutenu – la nostra libertà . Che possa essere anche foriera di libertà per tutti i popoli, libertà dalla guerra che distrugge e dalla violenza che opprime nonché libertà da ogni falso idolo, come nella metafora del Profeta Isaia (cap.11) che leggeremo nel giorno conclusivo della festa di Pesach, la metafora “del lupo che abita con l’agnello” e della terra “piena della conoscenza di D.O come l’acqua ricopre il fondo del mare”.

Giuseppe Momigliano, rabbino