Il Ghiur, trasformazione dell’individuo e sfida per la collettività
Il tema della conversione all’ebraismo – Ghiur, in ebraico – è una questione delicata e sempre viva nell’ebraismo, di cui su queste pagine si è discusso spesso in passato. Un argomento che intreccia le scelte personali dei singoli con le regole della Legge ebraica, che chiede di essere trattato con la dovuta consapevolezza e sensibilità. Lo dimostra la recente lezione del rabbino capo di Roma rav Riccardo Di Segni tenuta proprio sulle conversioni, che ha generato molta attenzione e ulteriori riflessioni. Proprio per proseguire questo confronto, abbiamo chiesto a rav Roberto Della Rocca, direttore dell’area Cultura e Formazione dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, di tornare sull’argomento e parlarne in questo spazio in modo più approfondito, proseguendo un discorso avviato negli scorsi anni. Su Pagine Ebraiche (settembre 2010), il rav aveva infatti già sottolineato le regole legate all’accoglienza di “chi vuole stare tra noi” e in un altro approfondimento (gennaio 2011) si era soffermato su “cosa deve comprendere chi chiede una conversione all’ebraismo e quale slancio devono mettere in campo i rabbini”. Lo abbiamo invitato così a tornare sul tema, per aggiornare, proseguire a costruire un dibattito e confronto proficuo su un argomento molto sentito all’interno della società e del mondo comunitario.
È ormai da qualche anno che l’ebraismo italiano ha iniziato a dividersi sul problema del ghiùr, la conversione all’ebraismo. Credo sia venuto il momento di considerare seriamente se, per un ebraismo di poco più di 25 mila iscritti, siano salutari frammentazioni, polemiche e fratture. Il problema del ghiùr riguarda tutto l’ebraismo mondiale, ma l’ebraismo italiano, a differenza di quello di altri paesi, è ormai ai minimi termini, e ogni crisi gli può risultare letale.
La crisi demografica dell’ebraismo italiano è purtroppo accompagnata e aggravata dall’assimilazione, la perdita di un’identità forte e vissuta con attiva consapevolezza. Il rischio della nostra scomparsa e della chiusura delle nostre istituzioni non può essere risolto con un’apertura irriflessa o con ghiurìm (conversioni) formali, per il semplice motivo che questa linea rinuncerebbe al legame con la tradizione ebraica, e non andrebbe certamente a beneficio di quanti sono alla ricerca di una coerente e coscienziosa assunzione di identità ebraica. Sarebbe un genere di ghiùr (conversione) utile solo a risolvere, forse, e solo molto parzialmente, il problema demografico, ma non certo il problema della coesione all’interno della comunità ebraica italiana. E non si può essere certi che si risolverebbe così, oltre a un problema personale, anche il problema dell’assimilazione.
L’atteggiamento di fondo dei Maestri, in tutte le generazioni, è sempre stato di cautela e non d’incoraggiamento, perché la soluzione “evangelizzatrice” implica l’assunzione di una posizione di superiorità.
Di fatto, mai nella storia il popolo ebraico ha messo in atto un’azione sistematica di proselitismo, accogliendo con una certa difficoltà quanti chiedevano di convertirsi, e sempre con ripetuti avvertimenti a non compiere passi affrettati che avrebbero potuto avere conseguenze drammatiche, a causa delle persecuzioni antisemite. All’ebraismo è stato più volte imputato di essere una religione nazionale, in contrapposizione ad altre religioni “universali”. Attraverso il noachismo, l’ebraismo sostiene che l’universalismo più vero sta proprio nel rispetto delle altre culture, e non nella loro sopraffazione. L’atteggiamento missionario, in cui l’ebraismo non si riconosce, contiene invece in sé i germi di un colonialismo spirituale che è estraneo sia alla Torah che ai Profeti di Israele. Per questi motivi, una conversione che non implichi anche la kabalàt mitzvòt (l’accettazione dei precetti) rischia di rappresentare una coercizione con sospette connotazioni di discriminazione razziale e di nazionalismo, perché a importare sarebbe unicamente l’appartenenza nazionale, etnica, culturale o razziale, più che la condivisione di un’educazione, di una cultura, di una fede e di una prassi. Il percorso verso l’ebraismo dovrebbe essere determinato, infatti, da una spinta interiore e non da considerazioni di natura genealogica, sociale, economica, o anche meramente culturale.
La purezza del sangue, peraltro, non è mai stata una preoccupazione ebraica. Non è il sangue o il colore della pelle a fare di un essere umano l’uomo che è, creato a immagine dell’Eterno. L’uomo si giudica per sé stesso e si definisce per le sue convinzioni e le sue azioni, non per le sue origini. L’erede di un assassino non è un assassino. I discendenti dello stesso Hamàn (nemico paradigmatico del popolo ebraico), secondo il Midràsh, stabilirono una Yeshivah a Bené Beràk.
Nell’ebraismo, l’orgoglio che deriva dalle proprie radici non consente che si coltivino illusioni di superiorità o pretese di privilegi in grazia dell’appartenenza etnico-religiosa. Aderire all’ebraismo implica, invece, assunzioni di obblighi e di responsabilità. I Maestri di Israele ribadiscono con forza questo concetto quando parlano del mamzer – il figlio che nasce da un adulterio o da un incesto, entrambi severamente proibiti dalla Torah, e che rappresenta la condizione sociale più umile all’interno del popolo ebraico. Dicono i Maestri: “mamzer talmid chacham kodem lecohen gadòl am aaretz” (T.B. Horaiot, 13b), ossia, un mamzer che studia e mette in pratica la Torah ha la precedenza su un cohen (il sacerdote, che rappresenta la classe più elevata del popolo), se questi è ignorante. Il valore dell’uomo, per l’ebraismo, non è in ciò che ha, e neppure in ciò che è, quanto in ciò che fa, giorno dopo giorno.
Ne è esempio la storia di Ruth, la moabita, che dichiara: “il tuo popolo è il mio, il tuo Signore è il mio” (Ruth 1:16) e attua così la duplice scelta dell’integrazione religiosa e nazionale, assurgendo a paradigma di ogni conversione sincera e disinteressata. Ruth non ha radici nobili – anche se alcuni midrashim la dichiarano di ascendenza regale moabita – eppure non solo è il prototipo della conversione ma, come a evidenziare l’assenza di ogni preclusione nella tradizione ebraica, da lei la Torah fa discendere il Messia. Infatti, con questo estremo paradosso, i Maestri ribadiscono come nella tradizione ebraica l’adesione ai principi coesivi del popolo sia di estrema importanza. I presupposti educativi ed etici risultano essere più rilevanti di quelli biologici e di sangue. Se così non fosse, il ghiùr (la conversione) non sarebbe neppure preso in considerazione.
Un’altra considerazione la si può fare notando che la Torah non assegna alcun ruolo ai due figli di Moshé. La genealogia di Moshè, infatti, appare rappresentata dai suoi nipoti, i figli del fratello Aron (Numeri 3:2). Da questo, Rashì ricava che “chiunque insegni Torah al figlio del proprio compagno è come se lo avesse generato”.
Ci si chiede che cosa significhi per la cultura rabbinica “generare” un figlio. La tradizione ebraica evidenzia in ogni modo, anche con la forza del paradosso più estremo, l’importanza dell’educazione e della formazione, dello studio e della cultura, anche contro le possibili alternative costituite dal legame biologico. Peraltro, e per paradosso, è proprio in forza dei valori culturali, e negando il valore dei legami biologici, che molti si battono per rendere più semplice quel passaggio di identità che è il ghiùr.
Sembra necessario, se si vuole parlare di ghiùr, accettare che l’ebraismo non concepisce una conversione intesa come pura e semplice iscrizione formale a una comunità. La conversione implica un cambiamento delicato e complesso, cambiamento psicologico, sociale, e di vita. Comporta un riorientamento della volontà, una difficile metamorfosi dell’anima. Porta spesso con sé una trasfusione di memoria. Può anche trasformarsi in una incomprensibile spinta autodistruttiva verso un rinnovamento. E certo, in tutto questo delicato fenomeno che è anche un percorso, l’ambiente, l’educazione e la pressione del gruppo rivestono un ruolo decisivo.
Vale la pena, qui, di stabilire alcune premesse per sgombrare il campo da non utili malintesi. La questione del ghiùr è spesso affrontata da un’angolazione influenzata dal vissuto personale, e sfocia così in una contrapposizione personalizzata fra il candidato ghèr e il singolo rabbino, cui è demandato di rappresentare e riconoscere all’aspirante l’identità ebraica.
Questo incontro, affrontato in modo errato, rischia di diventare uno scontro, e spesso si risolve in una polemica improduttiva e distruttiva, a volte aggravata da logiche di schieramento. Si deve invece accettare che accompagnare un figlio di madre non ebrea verso il ghiùr significa preparare tutto il nucleo familiare, sia il genitore ebreo sia la madre non ebrea. È difficile accettarlo, lo si comprende bene, ma l’ebraismo del minore non è un fatto solo personale, ma un fatto famigliare. All’educazione, alla formazione, e alla vita ebraica in casa, del figlio devono partecipare sia il padre che la madre. Si comprende allora perché ci si aspetta che la madre non ebrea faccia un percorso di ghiùr assieme al figlio. Ovviamente evitando su di lei qualsiasi forma di plagio e pressione. La famiglia si muove, nel suo insieme, verso una consapevolezza incondizionata della strada intrapresa e dell’impegno preso con il Beth Din (il tribunale rabbinico): la conversione dei bambini richiede infatti una trasformazione radicale dell’atmosfera familiare che lo accoglierà. Da qui la necessità di coinvolgere entrambi i genitori nello studio e nell’applicazione delle mitzvot, strumento fondamentale per infondere nei figli il senso dell’ebraismo. Il processo non può essere solo trasmissione di nozioni, sensazioni interiori e storia passata, ma deve attivare una prassi e un vissuto.
Il discorso sul ghiùr dei minori, che non avendo ancora capacità giuridica non sono in grado di scegliere coscientemente la loro strada, richiede qualche considerazione in più. Fino a qualche anno fa, questa responsabilità è gravata sui genitori e sul Beth Din quando questo ha accolto la richiesta, richiesta che, in ogni caso, secondo la giurisprudenza rabbinica prevalente, nel caso di bambini, va confermata nel momento del Bar/Bat Mitzwà o nel momento della maturità. Siamo troppo spesso testimoni, infatti, del fenomeno di ragazzi che frequentano per anni le istituzioni educative e sociali ebraiche e poi, all’improvviso, si allontanano. Forse l’educazione ebraica che si offre è carente,
non del tutto adeguata al livello di ebraismo che si vuole raggiungere in vista di una consapevolezza che garantisca continuità al nostro essere ebrei. Perché i nostri figli sentano l’importanza del loro ebraismo, esso deve abbracciare una dimensione di contenuti maturi, che non siano i meri ricordi dell’infanzia o della festa del Bar/Bat Mitzwà. Un ebraismo passivo, un semplice processo di conoscenza, un ebraismo non vissuto nel quotidiano, diventa prima o poi irrilevante, specie quando sopraffatto dalla cultura dominante che ci attornia.
Troppo spesso l’educazione ebraica è considerata un complemento, la cui cura è relegata ai ritagli di tempo. Si rischia un approccio letterario, romanzesco, alla propria identità, ci si costruisce una visione della vita ebraica che si avvicina alla realtà virtuale, come se fosse solo una lontana gloria del passato, da vivere nel ricordo e nella conoscenza piuttosto che nella vita quotidiana. Si dovrebbe iniziare a sviluppare una visione dell’identità ebraica attuale e autonoma, una concezione qualitativa, che sostituisca quella che la pressione sociale esercitata dalla realtà circostante propone, o talvolta impone, una diversa idea dell’esistenza più confacente alle esigenze di una vita davvero ebraica. Ma tutto questo non può essere delegato ai rabbini o alle comunità. Le famiglie che lo desiderano devono fare scelte chiare, coraggiose e coerenti.
Fare educazione significa lavorare sulle proprie rappresentazioni di sé e del mondo: qual è l’immagine culturale ebraica che vogliamo acquisire e trasmettere? Questo è il quesito che dobbiamo porci, e le risposte che daremo saranno decisive per le nostre scelte e dovranno dare il segno del valore che ha per noi l’educazione ebraica dei nostri figli.
Mancano oggi, a livello nazionale, strutture e istituzioni che garantiscano un percorso di educazione e formazione ebraica ai candidati gherim, soprattutto bambini. I tribunali rabbinici, pur avendo creato condizioni ebraiche favorevoli all’accoglienza delle famiglie che desiderano avvicinarsi, si trovano di fatto ad affrontare da soli un processo complesso e sempre più diffuso. Nella maggior parte dei casi manca l’appoggio della Comunità, intesa non come ente, ma come collettività, che dovrebbe sentire il dovere di entrare in relazione con queste famiglie. I Maestri sono molto attenti alle difficoltà di ordine psicologico che incontra il ghèr: “non opprimerai il gher” (Esodo 23:9), ingiunzione che il Tanà devè Eliahu Rabba, 27, interpreta come “non opprimerlo con le parole… non dirgli: ieri eri idolatra… e hai ancora la carne di maiale tra i denti, e tu adesso vuoi parlare con me?” La Torah ci impone costantemente di destinare un affetto e un amore speciali al convertito. Il comandamento “veahavta et hagher”, “amerai il gher”, lo straniero, ricorre decine di volte nella Bibbia. Nell’accettare la Legge ebraica, il convertito riceve anche la storia ebraica. È come se gli venisse data una nuova memoria, che sostituisce la sua. A nessuno è lecito rammentare al convertito il suo passato. Esso cessa semplicemente di svolgere un qualsiasi ruolo o di esistere. L’atto della conversione trasforma il convertito in un neonato, un nuovo essere. Per questo i Maestri del Talmud fanno tutto ciò che è in loro potere per evitare che il convertito all’ebraismo possa sentirsi escluso o messo al margine dalla comunità ebraica. Il convertito non deve mai sentirsi inferiore agli altri ebrei. Nella Bibbia l’amore per il gher è un punto fermo assoluto. Ci si deve sforzare in modo speciale, anche al di fuori della norma, per comprendere i problemi anche particolari che il gher si trova ad affrontare. E ciò riguarda la comunità nel suo complesso.
E questo perché il ghiùr ha sempre, necessariamente, tre attori: il candidato al ghiùr, un rabbino, una comunità. Il candidato che aspira al ghiùr deve essere consapevole di dover affrontare un percorso educativo e di studio, di applicazione e di assunzione d’identità. Dovrà entrare in comunità dalla porta principale e cercarvi il proprio posto nel modo più consono alle sue esigenze e alla sua personalità, secondo la visione realistica dei Maestri.
Prima di procedere a una conversione la comunità tutta dovrebbe chiedersi: “quanto siamo in grado di amare e di accogliere il gher facendogli sentire che la comunità è la famiglia in cui è rinato?” Non ci si deve aspettare, infatti, che il gher diventi un membro della famiglia del rabbino. La sua famiglia di riferimento deve essere la comunità tutta, e spetta quindi a questa il compito di svolgere la sua parte. Non a caso in molte comunità, Parigi e Londra fra queste, il Beth Din che riceve una domanda di ghiùr affida il candidato a una famiglia osservante che praticamente adotta l’aspirante gher. Al rabbino è affidata solo una funzione di controllo. L’aspirante va accompagnato nell’osservanza delle mitzvot, con consapevolezza e con gioia. Solo così, infatti, egli può apprendere in presa diretta il sentimento di ahavat Israel, dell’amore per il popolo ebraico, che è così centrale nella sua scelta. La conversione consapevole all’ebraismo è, dunque, l’ingresso del gher in una nuova famiglia allargata, in una comunità nella quale si svolgerà la sua vita ebraica.
Non si fa vita ebraica in solitudine. L’ebraismo pretende società e collettività. Il singolo deve essere accompagnato, anche psicologicamente, e la collettività deve integrare e integrarsi, evitando nell’incontro tensioni e malintesi. Perché chi entra entri con passo leggero, e chi accoglie accolga a braccia aperte e senza riserve. In questo senso anche le persone e le famiglie che hanno già fatto il ghiùr, anch’esse, non possono essere lasciate sole. Il processo di inserimento comporta una partecipazione corale della comunità.
Il problema dei ghiurim, allora, coinvolge il problema stesso della nostra sopravvivenza e della qualità della nostra comunità. E non solo e non tanto dal punto di vista demografico. Ma, come si è detto, le nostre strutture comunitarie non costituiscono, oggi, un valido riferimento per offrire a chi ne dimostra il bisogno un inserimento equilibrato e dignitoso nella realtà della vita ebraica. Per aiutare l’ebraismo italiano a uscire da uno sterile dibattito e da dannose divisioni, è forse utile partire dall’analisi dei principi fondamentali dell’ebraismo e della situazione attuale. Ci si potrà poi chiedere quali percorsi educativi, formali e informali, si possano intraprendere, e come si possa tentare di unificare procedure e comportamenti. Ma non ha alcun senso parlare di ghiùr se non si parla del modello di famiglia (in primis quella del gher) e del modello di comunità in cui si pensa il convertito possa e debba inserirsi.
Non ci nascondiamo che il primo passo possa spettare ai rabbini, che sono chiamati a una seria, approfondita e condivisa, riflessione sul tema. Sta ai rabbini agire di concerto e avviare percorsi educativi, di studio, di preparazione, di formazione, di appoggio, e infine di riconoscimento, che renderebbero non solo più fluido, ma anche decisamente più serio e più consapevole, ogni singolo percorso di ghiùr.
Se rabbini e comunità riusciranno a collaborare insieme, grazie a un progetto organico e condiviso, nella costruzione di percorsi di appoggio, non rimarrà al gher che fare la sua parte, dimostrando con serietà e costanza la sincerità del suo intento. E si potrà contribuire così a ridurre le tensioni che stanno minando il clima delle nostre comunità.
Rav Roberto Della Rocca