Sergio Minerbi (1929-2019)

È scomparso all’età di 89 anni Sergio Minerbi, diplomatico, opinionista e figura simbolo degli Italkim, la comunità degli italiani residenti in Israele. Tra i massimi esperti al mondo dei rapporti tra Israele e Santa Sede, Minerbi era nato nel 1929 a Roma da padre ferrarese e madre polacca, originaria di Varsavia. Dopo aver militato giovanissimo nelle organizzazioni sionistiche, appena compiuti i 18 anni ha lasciato il suo paese per emigrare verso l’allora nascente Stato ebraico. Ottenuta una laurea in Economia, è poi entrato al Ministero degli Esteri israeliano e ha rappresentato Gerusalemme in Africa e a Bruxelles presso la Comunità europea. È stato inoltre docente nelle Università di Gerusalemme e di Haifa, autore di numerosi saggi e collaboratore di varie testate giornalistiche, tra cui Pagine Ebraiche, su cui ha commentato le due storiche visite di Ratzinger e Bergoglio al Tempio Maggiore di Roma. Al processo Eichmann, momento chiave della storia del Novecento e della consapevolezza collettiva dei crimini del nazifascismo, ha dedicato uno dei suoi libri più importanti: La belva in gabbia.
Una vita intensa e appassionante, quella di Minerbi, ricostruita in una ampia intervista con Pagine Ebraiche pubblicata alla vigilia del secondo incontro tra gli ebrei romani e un papa al Portico d’Ottavia e in numerosi interventi sui nostri notiziari e periodici. Ma anche nell’emozionante I Minerbi. Una famiglia ebraica ferrarese curato per l’editore Salomone Belforte. 
Acuto polemista, Minerbi ha più volte messo in allarme sul pericolo di un processo di “cristianizzazione” della Shoah in corso: “È venuta l’ora di dare risposte chiare, non può essere assecondato”. 
minerbiAcuto polemista, Minerbi ha più volte messo in allarme sul pericolo di un processo di “cristianizzazione” della Shoah in corso. Sottolineava ad esempio alla vigilia della visita di Ratzinger: “È venuta l’ora di dare risposte chiare, non può essere assecondato. Il caso Edith Stein, ripetutamente evocato anche su Pagine Ebraiche, parla da solo. Ma non c’è solo quello. La Chiesa elaborò la teoria di essere stata vittima delle grandi dittature solo poche ore dopo la fine del conflitto. C’è un intervento di Pio XII che risale al 2 giugno 1945 dove si legge chiaramente questa assurda pretesa”. Questo il suo giudizio di Ratzinger: “Antipatico come persona, ma onesto”. E questo perché, affermava Minerbi nel colloquio con il giornale dell’ebraismo italiano, “ci volevano le contropalle per scrivere a tutti i vescovi ‘Mi sono sbagliato’ a proposito del caso Williamson: e lui lo ha fatto”.
“Benedetto XVI – aggiungeva poi Minerbi – è meno versato del predecessore nei gesti simbolici o, se vogliamo, spettacolari. Ma proprio questo costituisce un motivo di speranza, una ragione per ascoltare con attenzione, anche in occasione della sua visita a Roma”.
Meno entusiasmo invece per il suo successore. “Non posso dire di essere rimasto deluso, perché in genere non mi creo aspettative, ma mi sembra che il discorso di Bergoglio in sinagoga sia stato uno dei meno entusiasmanti che gli ho sentito pronunciare” il primo commento a caldo su www.moked.it, dopo la visita in sinagoga. “Mi è sembrato un discorso di intermezzo. Il no all’antisemitismo, la definizione di fratelli e sorelle maggiori, il no alla violenza tra religioni, è tutto giusto ma è tutto già sentito e conosciuto. Forse lo sbaglio è il nostro che da lui ci aspettiamo grandi e roboanti affermazioni”. Il dialogo, ammoniva Minerbi, “serve se costituisce un confronto serio: altrimenti si riduce solo a una parata, per farsi fare la foto ricordo accanto al papa”.

(I disegni sono di Giorgio Albertini)

“Il dialogo serve solo se si parla di cose serie”

Roma, novembre 1945. L’Italia rinasce e il primo inverno dopo la fine della guerra sembra piuttosto un fermento di primavera. Presto il primo lume di Hanukkah, la prima luce dell’Italia libera, brillerà nel buio delle giornate più brevi. La più antica comunità della Diaspora, segnata dalle cicatrici di sofferenze indicibili, riprende una nuova volta a guardare avanti, a costruire, a sperare in un mondo migliore. Torna alla luce una società ebraica mai piegata dalle persecuzioni. E si rialzano le bandiere della libertà. Sventolano gli ideali del sionismo. Arrivano i primi militanti che preparano una pattuglia di italiani destinati a portare contributi di prim’ordine nella costruzione dello Stato di Israele.
Al numero 47 di piazza del Gesù, sui tavoli della tipografia Moderna Com- merciale, un giovane leader sionista cerca di mettere in ordine colonne di piombo sotto la nuova testata Dapei Hechalutz, il giornale che chiama a raccolta la meglio gioventù scampata al massacro e lancia la sfida di Israele.
Posato, rigoroso, Aldo Sonnino era, ancora giovane, già un capo politico adulto. Ma la sua autorità non poteva che traballare di fronte alla grinta di un ragazzino di 15 anni ferocemente polemico.
Per lui niente mezze misure. Il contenuto del giornale? Fiacco. La grafica? Un pasticcio.
Il povero Sonnino, sconsolato, finisce per arrendersi di fronte al ragazzino terribile. Sono trascorsi 64 anni e Sergio Minerbi non pare per nulla intenzionato a mollare la presa. Accoglie l’intervistatore ricordando che a lui preme parlare fuori dai denti. Prende in mano Pagine Ebraiche con occhio critico.
“La grafica te la passo, anzi è proprio bella – mormora – per il resto vediamo”.
Superata la prima prova, l’intervista prende il volo. Da Roma a Gerusalemme e ora con il pensiero di nuovo da Gerusalemme a Roma, per valutare la prossima visita di Benedetto XVI alla sinagoga della capitale.
E per parlare di Israele, dell’Italia, del futuro, dei giornali, di noi.
Cosa vi siete detti, ambasciatore, quella volta con Sonnino in piazza del Gesù?
Lui era una gran brava persona. Ma il suo modo di fare il giornale era inaccettabile. Così gli ho messo sotto il naso qualche copia di Stars and Stripes, il quotidiano delle truppe alleate che si stampava a Roma. Era un giornale straordinario. Una grafica finalmente chiara, efficace. Leggerlo dopo tanti anni di buio era una ventata di libertà e una grande lezione di professionalità. Ho cercato di fargli capire che il nostro giornalino senza una forma chiara la gente non lo avrebbe neanche aperto.
Così il piccolo giornale dei giovani sionisti italiani prese a modello il quotidiano che portava in Italia la stampa libera.
Sì, ma Sonnino perse la pazienza e decise di gettare la spugna. “Basta, il giornale da domani te lo fai tu”, mi disse. Come dire, “Hai voluto la bicicletta”?
Macché, me la sono cavata egregiamente. Andavo in giro in bicicletta portandomi appresso le colonne di piombo già composte. E non avevo altra pretesa che divertirmi. Contro venti e maree.
Lei si è fatto la fama di uno che non le manda a dire.
Mio padre era un uomo severo. Quando mi diede la prima bicicletta, avevo nove anni. Mise una sola condizione: non uscire dai confini di Roma. Ovviamente non gli diedi ascolto. La prima gita pedalando mi portò a vedere il mare. Appena a Ostia ho telefonato a casa per comunicare le mie prodezze. Mi è sempre piaciuto il senso della sfida. Anche a Gerusalemme, al ministero degli Esteri. Gli opportunismi non fanno per me. In Israele è diverso, queste cose si possono fare, il parlar chiaro è tollerato anche quando non è apprezzato.
Passiamo alla prossima visita di Benedetto XVI alla sinagoga di Roma, ai rapporti con la Chiesa, allo stato del dialogo. In un recente saggio lei segnala molti elementi di preoccupazione e di malessere.
Certo, c’è malessere, c’è motivo di inquietudine. Cominciamo da questo inaccettabile tentativo di cristianizzare la Shoah. Si vede dappertutto. Ed è venuta l’ora di dare risposte chiare, non può essere assecondato. Il caso Edith Stein, ripetutamente evocato anche su Pagine Ebraiche, parla da solo. Ma non c’è solo quello. La Chiesa elaborò la teoria di essere stata vittima delle grandi dittature solo poche ore dopo la fine del conflitto. C’è un intervento di Pio XII che risale al 2 giugno 1945 dove si legge chiaramente questa assurda pretesa.
Quali altri segnali possiamo leggere?
Molti hanno visto segni nell’azione di Giovanni Paolo II, che fu il primo papa a visitare la sinagoga di Roma. Ora se il gesto simbolico riveste indubbiamente un valore enorme, non possiamo dimenticare che l’emozionalità mossa dai mass media, soprattutto dalla televisione, può falsare enormemente i contenuti. Andiamo invece al sodo.
Come?
Si è trattato di immagini molto belle, ma di contenuto ce n’era pochino. Leggiamo i documenti. La cosiddetta Omelia di Brzezinka del 7 giugno 1979 (curioso pudore nominare in polacco questo luogo che tutto il mondo conosce come Treblinka), per esempio. Il campo di Auschwitz non esiste. Solo due esseri umani, di tanti che soffrirono, sono citati esplicitamente: l’ebrea convertita Edith Stein e il sacerdote Massimiliano Kolbe. Si parla di sei milioni di vittime, ma le si definisce “un quinto della nazione polacca”. C’è stata una chiara convergenza fra Chiesa e governo di Varsavia nel negare una responsabilità nazionale polacca nello sterminio. E si vede una volontà ferrea di trasformare la Shoah in un evento polacco e cattolico. La formula dei sei milioni di vittime polacche, del resto, non ha costituito uno scivolone isolato. È stata ripresa più volte, anche nel corso della visita a Varsavia. Né in Italia né altrove qualcuno ha reagito.
Di questioni polacche sembra saperla lunga.
Mia madre era polacca. Andavamo a Varsavia per le vacanze. Lì ho visto un mondo oggi scomparso. Un mondo incredibile per un bambino italiano. Sono entrato nella prima Sukkah della mia vita. E nel ‘39 si poteva già capire tutto.
La sua è stata una gioventù fuori dall’ordinario. Ha da dire grazie a qualcuno per la salvezza?
Per salvarmi la pelle mia madre mi portò al collegio San Leone Magno. A questi preti straordinari, a don Alessandro, devo la vita. Ma questo non dava il diritto a suo fratello Leone di cercare di indottrinarmi con lezioni di catechismo forzato.
Saranno stati momenti di grandi tensione.
Ricordo ancora il titolo di un tema: “Come raggiungere la fede attraverso la ragione”, e la mia risposta.
Quale?
Qui ci sono due fedi in gioco, non solo una.
Lei come giudica Ratzinger?
Antipatico come persona, ma onesto.
Si spieghi meglio.
Ci volevano le contropalle per scrivere a tutti i vescovi “Mi sono sbagliato” a proposito del caso Williamson. E lui lo ha fatto. Benedetto XVI è meno versato del predecessore nei gesti simbolici o, se vogliamo, spettacolari. Ma proprio questo costituisce un motivo di speranza, una ragione per ascoltare con attenzione, anche in occasione della sua visita a Roma. È molto interessante, per esempio, quanto avvenuto in occasione della sua visita allo Yad Vashem. È stato attaccato senza un motivo razionale, solo perché non ha compiuto gli stessi gesti mediatici di Giovanni Paolo II. Nessuno si è preso la briga di analizzare il contenuto dei discorso, si badava solo allo spettacolo. Ci si è voluti incantare del bigliettino che il suo predecessore ha lasciato al Muro occidentale, nessuno si è domandato se dentro vi fosse una vera richiesta di perdono.
Allora, che fare?
Tendere la mano, va bene, ma anche ascoltare attentamente. Giudicare i contenuti, badare ai fatti. C’è una tendenza inquietante a riportare la Chiesa allo status quo ante Concilio Vaticano II. Da Ratzinger non dobbiamo aspettarci una rivoluzione, non dimentichiamoci che fu il segretario del suo predecessore, ma possiamo attenderci chiarezza. E con altrettanta chiarezza dovremmo rispondere. Non si possono accettare i suoi ripetuti tentativi di affermare che il cristianesimo costituisce il compimento dell’ebraismo.
Se avesse occasione di dare prima della visita un consiglio a Benedetto XVI, cosa gli direbbe?
Che ci sia nella forma uno sforzo di rispetto reciproco. Se evitasse di esporre al di fuori dei suoi abiti il crocifisso pettorale non ci vedrei proprio nulla di male.
Ma il dialogo, serve?
Il dialogo serve se costituisce un confronto serio. Altrimenti si riduce solo a una parata. Per farsi fare la foto ricordo accanto al papa.

Guido Vitale – Pagine Ebraiche gennaio 2010

IL PERICOLO DELL’IMPASSE
Convertire, un vizio che pone tutto a rischio

Nel dialogo con la Chiesa cattolica c’è qualcosa che non fila per il verso giusto. Sergio Minerbi ne è convinto, tanto da affermare nel suo saggio più recente (Benedict XVI, the Lefebvrians, the Jews, and the State of Israel, pubblicato sull’ultimo numero della prestigiosa Jewish Political Studies Review) che il papa ha aumentato la distanza politica con Israele dopo il suo intervento a Durban 2 e che la questione da porsi ormai è se una Chiesa cattolica che sta divenendo più tradizionalista e più distante dal Concilio Vaticano II e dalla Nostra Aetate possa riuscire a incrementare o almeno a mantenere le sue relazioni con il mondo ebraico.
In specifico, afferma Minerbi, “se il contenuto del dialogo fra ebrei e cattolici fosse destinato a restare confinato in un tentativo di convertire gli ebrei, sarebbe destinato a rimanere un esecizio del tutto inutile”. Anche la recente visita di Benedetto XVI in Israele, che avrebbe potuto migliorare le relazioni fra il Vaticano e Gerusalemme, è stata secondo lo studioso eccessivamente con- dizionata dall’urgenza di emettere prese di posizione poco equilibrate sulla questione palestinese.
Minerbi cita a questo proposito l’analisi del filosofo francese Shmuel Trigano che nel suo saggio La nouvelle politique du Vatican ha recentemente affermato: “Agli ebrei viene riconosciuto lo status di martiri della Shoah, ai palestinesi lo status politico o addirittura politico-teologico”.
In sostanza, mette in guardia Minerbi, la recente politica vaticana rischia di portare il dialogo fra ebrei e cattolici a una impasse insormontabile. Ciononostante lo studioso ha più volte in tempi recenti mostrato di apprezzare la chiarezza di alcuni atteggiamenti di Benedetto XVI e quello che lui stesso ha definito il coraggio del papa nel denunciare i lefebvriani negazionisti ammettendo i propri errori di valutazione.


IL RAGAZZO TERRIBILE

Sergio Minerbi è nato in Italia nel 1929 e dopo aver militato giovanissimo nelle organizzazioni sionistiche, appena compiuti i 18 anni ha lasciato il suo paese per emigrare verso Israele. È stato diplomatico e ambasciatore di Gerusalemme in Africa e a Bruxelles presso la Comunità europea ed è stato docente nelle Università di Gerusalemme e di Haifa. Oggi scrive saggi di storia e di politica e collabora con numerose testate giornalistiche. Fra l’altro in Israele ha scritto sul quotidiano Haaretz e in Italia sul Sole 24 Ore. Conosciuto e temuto per un gusto incoercibile per la polemica, ma soprattutto per la coerenza e la fermezza dei suoi ideali, si è sempre distinto per un parlare chiaro che talvolta ha finito per dispiacere alcuni dei suoi interlocutori. Da molti anni è un attento osservatore dello stato dei rapporti fra ebraismo e Chiesa cattolica e ha assunto posizioni molto critiche su alcune posizioni espresse dagli ultimi papi. La visita di Benedetto XVI alla sinagoga di Roma sarà da lui osservata con interesse, ma, come spiega in questa intervista a Pagine Ebraiche, senza eccessive aspettative. Il dialogo, a suo giudizio, può rivelarsi utile solo a condizione di evitare le superficialità dei gesti a effetto e avviando un confronto serio.

(5 maggio 2019)