Lo Shabbaton UCEI a Senigallia
Diritto ebraico e diritto dello Stato
Studio della Torah e attività ricreative, letture dal Pirkè Avot e un confronto aperto su vari temi di interesse generale. Per il weekend dal 24 al 26 maggio UCEI e Comunità ebraica di Ancona propongono uno speciale Shabbaton in programma a Senigallia, rivolto a grandi e piccini.
Di particolare interesse, tra i vari appuntamenti del fine settimana, un confronto su diritto ebraico e diritto dello Stato con introduzione del rabbino capo di Torino rav Ariel Di Porto e Daniela Dawan, giudice della Corte Suprema di Cassazione, moderati dal rav Roberto Della Rocca.
Per maggiori informazioni e per iscriversi allo Shabbaton: cultura@ucei.it
Dina demalkuta dina
Dina demalkuta dina è un concetto proprio del diritto ebraico secondo il quale “una norma del regno è una norma”. In base a tale principio il diritto del posto in cui si vive assume un valore giuridico per la normativa ebraica, e contravvenire ad esso equivale a trasgredire alla normativa religiosa. Il principio, che è stato accolto praticamente da tutti i rabbini di ogni tempo, senza eccezione alcuna (Ritvà a Nedarim 28a), sembra andare contro allo spirito della halakhàh, la quale, come è risaputo, si interessa di tutti gli ambiti dell’esistenza umana. La legge è un elemento fortemente caratterizzante del popolo ebraico, tanto che un precetto fondamentale è quello di istituire tribunali in ogni luogo (Deut. 16,17). L’ebreo, anche al di fuori di Israele, è sottoposto alle norme della halakhàh, anche in ambito civile e penale.
Molto si è scritto su questo concetto dal punto di vista storico, sociale e giuridico. In particolare il tema è stato sviluppato dagli studiosi ebrei medievali. La legge ha lo scopo di normare il rapporto fra individui e stato, ed anche quello fra esseri umani. Il diritto ebraico naturalmente si interessa di entrambi gli aspetti. Il dominio straniero in terra d’Israele e l’esilio del popolo ebraico hanno creato però una situazione precedentemente non prevista, ed un mancato pronunciamento della halakhàh sulla questione avrebbe generato una lacuna, non avendo a disposizione un criterio che regolasse il rapporto fra i sudditi ed un re straniero. Non si può negare però che l’esistenza di un altro ordinamento ulteriore rispetto alla halakhàh costituisca un notevole elemento di disturbo; difatti chiunque potrebbe invocare dei diritti richiamandosi all’altro ordinamento, rischiando di distruggere la certezza del diritto, e quindi è necessario stabilire una delimitazione ben precisa agli ambiti di applicazione del dina demalkuta.
Tale delimitazione è necessaria anche per identificare il sottile limite che divide il dina demalkuta dalla gazlanuta demalkuta, la violenza di stato. Il problema con il passare dei secoli è divenuto sempre più importante, perché sino ad un certo periodo gli ebrei godevano di una certa autonomia nell’ambito giudiziario, ed era concesso loro di avvalersi dei propri tribunali. In particolare, con la nascita degli stati moderni, lo stato acquisisce tutta una serie di prerogative che in precedenza erano ad appannaggio della chiesa.
Si pone anche un’altra questione: non è detto che il re tenga in considerazione questo aspetto della nostra normativa. In Bavà Qamà113b Ravà nota come il governo tagli le palme per farne dei ponti sui quali passiamo. Tutto questo è giustificato o no? O ad esempio: se in un certo stato vi è un istituto simile alla nostra usucapione, e utilizzando un certo bene per un periodo prestabilito se ne acquisisce la proprietà, ma il periodo ha una durata differente nel diritto ebraico e in quello persiano, quale diritto si dovrà seguire, quello ebraico o quello persiano (Bavà Batrà 55a)? O rispetto a questioni più recenti: se in un certo stato è vietato acquistare degli schiavi, ci si dovrà attenere a tale principio?
Più in generale possiamo chiederci se è possibile per un ebreo rispettare la propria legge religiosa ed essere al contempo rispettoso della legge dello stato in cui vive.
L’espressione compare quattro volte (Ghittin 10b, Nedarim 28a, Bavà Qamà 113a, Bavà Batrà 54b) nel Talmud Babilonese, sempre a nome dell’amorà babilonese Shemuel (III sec.), della prima generazione degli amoraim di Babilonia. L’affermazione di Shemuel è significativa, perché al contrario delle generazioni precedenti, che si erano espresse su un governo straniero che legiferava in terra d’Israele, per la prima volta troviamo un pronunciamento sul rapporto con il governo per gli ebrei in diaspora. Questo stesso rabbino dirà su una questione leggermente differente: “tutto quello che è detto nel brano del re, è permesso al re”. Nel cap. 8 del primo libro di Samuele il profeta si dilunga ad illustrare al popolo ebraico, che voleva essere governato da un re, al pari delle popolazioni circostanti, gli innumerevoli diritti del re. Rav (Sanhedrin 20b) riteneva che sia vietato per il re fare quanto scritto nel libro di Samuele, e che l’unico scopo sia quello di impaurire il popolo ebraico, tanto che alcuni hanno ritenuto che Rav non ammetta il principio dina demalkuta dina; Shemuel invece considera quelli indicati come diritti effettivi del re. I commentatori successivi discuteranno se le due affermazioni sono collegate fra loro, e questo pronunciamento si rivelerà molto importante per stabilire i limiti di dina demalquta dina.
Con la nascita dello stato d’Israele il tema è divenuto estremamente attuale e sono sorte varie discussioni sul principio. Difatti diviene rilevante stabilire se il principio si applica, secondo l’opinione del Rambam, anche ai re d’Israele e se il diritto del re deriva dal possesso della terra, o se piuttosto non si applica al re di Israele, perché non possiede la terra (Ran), o perché, tranne alcune eccezioni, deve attenersi in tutto e per tutto a quanto stabilito dalla Toràh (Nimuqè Yosef a Nedarim 28a).
Vi è poi un’altra questione: lo status di re è attribuibile anche ai governi democratici? Rav Kuk (Shut Mishpat Kohen 144) sostiene che nel momento in cui non vi è un re, i suoi diritti vengono trasferiti alla collettività nel suo complesso. Alcuni si appoggiano sull’opinione del Chatam Sofer, secondo cui le norme che sono stabilite per volontà e vantaggio del popolo hanno la validità delle norme del re. R. Eli’ezer Waldenberg sostiene anzi che le norme emanate in democrazia, visto che i governanti sono stati nominati dal popolo, abbiano persino maggiore forza dei decreti del re.
Rav Ariel Di Porto, rabbino capo di Torino
(7 maggio 2019)