La trappola del Salone del Libro

baldacci“Torino, il Salone del Libro finisce nella trappola dell’editore di Casa Pound”: così ha titolato in prima pagina, in maniera perfettamente azzeccata, La Stampa del 7 maggio. Perché proprio di una trappola si è trattato, di una trappola nella quale alcuni sprovveduti antifascisti si sono andati a cacciare, finendo per favorire un’operazione che ha dell’incredibile, far passare un editore fascista come l’alfiere della libertà di pensiero e di espressione.
Sprovveduti, ma in fondo coerenti con una concezione che va avanti da più di settanta anni, fare dell’antifascismo non un valore condiviso da tutta la nazione ma – nonostante le cerimonie ufficiali – qualcosa che è patrimonio di una parte (o addirittura di un partito).
È un’operazione che è cominciata già nel corso della Resistenza ed è continuata subito dopo, non solo sul piano politico ma anche su quello storiografico, con l’esaltazione a senso unico delle formazioni partigiane di ispirazione comunista e la sottovalutazione e spesso il silenzio sulle altre, a cominciare da quelle di origine militare. Ed è un’operazione che si è accompagnata con un’altra, apparentemente di segno opposto, il colpo di spugna sui crimini fascisti – in Italia ma anche nelle aree balcaniche occupate dall’esercito italiano – attraverso l’amnistia voluta dal guardasigilli Togliatti, che, va ricordato, riguardava anche i delitti “efferati” (quindi anche le torture): per essere esclusi dall’amnistia i delitti dovevano essere “particolarmente efferati”: una distinzione davvero raffinata. L’amnistia Togliatti permise il recupero – prima di tutto nell’amministrazione pubblica, e poi in ogni altro settore della vita della nazione – di tutti i fascisti, con l’inevitabile “riconoscenza”, soprattutto elettorale, verso il partito che si era fatto promotore della loro salvezza. D’altra parte quanto sia stato strumentale l’antifascismo coltivato dal PCI e dai suoi successori lo dimostra il caso di Gaetano Azzariti, che ancora oggi viene sollevato con grande scandalo perché colui che era stato Presidente del Tribunale della Razza fu poi anche, in età repubblicana, il primo presidente della Corte costituzionale; ma si tace sul fatto che Azzariti fu non solo Ministro di Grazia e Giustizia del primo Governo Badoglio ma fu anche stretto collaboratore di Togliatti nello stesso ministero dal giugno 1945 al luglio 1946. Restavano esclusi solo gli irriducibili, quelli che potevano vantarsi di essere stati “l’ultima raffica di Salò”; ma anche a loro fu consentito precocemente di rientrare nella vita pubblica italiana, con l’accettazione della legalizzazione di un partito apertamente neofascista – il Movimento Sociale Italiano – che negli anni ’50 sostenne apertamente perfino alcuni Governi.

Come era possibile che in quel quadro l’antifascismo diventasse un valore condiviso da tutta la nazione? E infatti non lo divenne, e divenne invece la bandiera di un partito – il PCI – che lo usò, o non lo usò, a seconda delle proprie convenienze politiche del momento. Ci fu un solo momento in cui l’antifascismo sfuggì di mano alle logiche elettoralistiche del PCI e divenne lotta di popolo: fu nell’estate 1960, con la sollevazione contro il governo Tambroni sostenuto dal MSI. Ma ben presto il PCI – con l’aiuto dei suoi intellettuali e soprattutto dei suoi storici – riuscì a recuperare sotto la propria bandiera anche quell’episodio.

In Italia non esiste quindi – con poche luminose eccezioni – una tradizione antifascista che non sia strumentale e strumentalizzata. Quindi non è casuale che ci si trovi oggi privi di strumenti per combattere un fascismo che sempre più mostra il suo volto che – come è sempre accaduto – non è unico, ma si compone di tanti aspetti, volta a volta legalistici o violenti, tradizionali o innovativi, ma sempre caratterizzati da una profonda estraneità ai valori della democrazia liberale.

È possibile oggi riproporre una battaglia antifascista? Non solo è possibile ma è indispensabile, se si vuole salvare la nostra democrazia. Ma per farlo occorre che alcuni punti siano messi in chiaro. Intanto occorre che le forze politiche comprendano che – visto che non esiste una tradizione antifascista condivisa – non si può pretendere che i cittadini siano antifascisti spontaneamente. C’è tutta un’opera di diffusione della conoscenza da fare e una serie di nodi da sciogliere, a partire proprio dalle leggi razziali e delle loro conseguenze. Esiste una vulgata che vuole che la crisi del fascismo sia iniziata proprio con le leggi razziali. Niente di meno vero: la crisi del fascismo non ci sarebbe stata senza le sconfitte militari – a cominciare da quella contro la Grecia – e le leggi razziali furono tranquillamente accolte dalla grande maggioranza del popolo italiano, abituato a un quieto antisemitismo da secoli di insegnamento della Chiesa cattolica. Ci vollero le persecuzioni nazifasciste dopo l’8 settembre 1943 perché l’antisemitismo razzista venisse conosciuto nel suo vero volto, e non da tutti.
E’ da qui che deve partire una rinnovata battaglia antifascista, dalla rivelazione del vero volto del fascismo con le leggi razziali e la loro applicazione, in particolare nei territori dove il fascismo di Salò esercitò il suo potere accanto ai tedeschi. Ma questo significa parlare anche del destino del popolo ebraico, della sua storia, della storia di un popolo perseguitato ma che costruisce anche il proprio riscatto con la formazione di un proprio Stato, che diventa lo Stato-rifugio dei perseguitati, che adesso non vengono soltanto dall’Europa, ma anche dai Paesi arabo-islamici, da dove gli ebrei vengono cacciati da regimi guidati da uomini che hanno – durante la guerra – sostenuto le forze dell’Asse italo-tedesco e che poi hanno creato regimi che riprendono, in forme adattate alle circostanze, l’ideologia fascista.
Quanti di quelli che oggi si stracciano le vesti per l’episodio del Salone di Torino sono capaci di essere coerenti e di ripetere le parole di Ugo La Malfa: “la libertà dell’Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme”, di comprendere che lo Stato d’Israele – dico lo Stato d’Israele, non questo o quel governo – è il solo argine al diffondersi in Medio Oriente ma anche in Europa del fascismo islamico? Certo non quelli che ogni anno il 25 aprile insultano le insegne della Brigata Ebraica e si fanno vanto di definirsi “antifascisti militanti”. Ma nemmeno quelli che nei salotti mescolano nella loro virtuosa indignazione Salvini e Netanyahu, senza comprendere che una cosa è l’essere estranei ai valori della democrazia liberale e un’altra è guidare uno Stato permanentemente minacciato di distruzione e obbligato quindi a accettare il sostegno da parte di chiunque, senza che ciò intacchi la sua natura profondamente democratica.

Valentino Baldacci