Machshevet Israel – Testamenti spirituali
Il testamento spirituale (in ebraico si dice tzava’a, in inglese ethical will) è un’antica pratica ebraica: in vista della propria morte si desidera non solo “mettere in ordine i propri affari terreni”, che è lo scopo di ogni testamento, ma anche riassumere il senso profondo della propria esistenza e mandare un messaggio ai propri cari e spesso alla propria comunità raccomandando quei valori morali e quegli ideali religiosi per cui si è vissuto. Di recente, a seguito dell’inesorabile avanzata della sua malattia e dunque con il pensiero alla dipartita da questo mondo, rav Giuseppe Laras z”l ci ha lasciato un memorabile esempio di quest’usanza tradizionale: in una lettera aperta a discepoli e amici, il rabbino emerito di Milano ha ricordato le tappe dolorose della propria vita come sopravvissuto alla Shoà e le sfide affrontate come maestro di una grande qehillà; ha fatto memoria grata dei momenti felici e ha ammesso i fallimenti; ha messo sull’avviso circa i rischi che le comunità ebraiche corrono oggi: il risorgente antisemitismo dall’esterno e la troppa litigiosità all’interno. E dopo aver criticato chi usa il dialogo interreligioso per fare carriera, ha infine spronato gli ebrei osservanti ad essere più coraggiosi e più coinvolti. Alle disposizioni precise circa il bet din [il tribunale rabbinico] da lui presieduto, seguono raccomandazioni sull’educazione ebraica e sull’attenzione ai problemi reali dell’ebraismo italiano. Un testo sincero, a tratti provocatorio, comunque da meditare.
Ora, al di là del cosa ci ha raccomandato, c’è la lezione stessa del testamento: una forma di commiato quale estremo atto di cura e di dedizione. Scrivendo questa lettera, rav Laras si è inserito nel solco di una tradizione che risale a Moshè rabbenu. Devarim/Deuteronomio è un insieme di discorsi che Mosè tiene al popolo in vista della propria morte, che è la pagina finale della Torà: come il popolo debba ricordarsi di quanto HaShem ha fatto per farlo uscire dall’Egitto e soprattutto come comportarsi moralmente e politicamente per non essere rigettati da Dio una volta entrati in eretz Israel. Benedizioni e scongiuri da parte di un leader che non potrà godere il frutto degli sforzi di una vita – entrare nella terra verso la quale ha guidato Israele – proprio lui che aveva ritrovato nel Nilo e riportato a casa le ossa di Giuseppe. Ma lui non vi entrerà. Punizione divina o ironia del destino?
Tra Otto e Novecento lo studioso inglese Israel Abrahams raccolse pionieristicamente una serie di testamenti spirituali di grandi maestri, ga’onè Israel, in un’antologia in due tomi, che apparve nel 1926, l’anno dopo la sua morte (ha avuto multiple riedizioni, l’ultima nel 2006). Vi si trovano gli ultimi messaggi di Maimonide, del Ba’al Shem Tov e del Gaon di Vilna. L’antologia dell’Abrahams si ferma alle fine del XVIII secolo. Nel 1991 Jack Riemer e Nathaniel Stampfer l’hanno idealmente completata raccogliendo in un altro volume i testamenti spirituali di ebrei ed ebree del Novecento, famosi o meno, tradotti in inglese da varie lingue, mentre Abrahms raccolse solo testamenti di maschi illustri e mise l’ebraico a fronte. Così abbiamo ora in un unico volume anche i testamenti spirituali di Theodor Hertz, di Edmond de Rothschild, di Meir Dizengoff (sindaco di Tel Aviv), di rav Kook e di rav Uziel, e alcuni estremi messaggi di vittime della Shoà, ma la maggior parte sono di persone a noi sconosciute. Scopo del volume è diffondere e far sopravvivere questo vero e proprio genere letterario che, come il diario e l’autobiografia (si pensi a quelle di Leone Modena e Salomon Maimon), serve la memoria collettiva e apre l’anima dei benè Israel.
Il testamento del Gaon di Vilna resta uno dei più famosi: fu scritto in forma di lettera alla famiglia mentre si trovava a Königsberg, in viaggio per la Palestina, ma non riuscì ad andare oltre la Germania e tornò poi a Vilna. Il testo, che venne pubblicato la prima volta nel 1836 (e poi diffuso in versioni diverse), è una lunga serie di disposizioni pratiche e di raccomandazioni sull’osservanza religiosa, riflesso delle sue personali attitudini ascetiche. Ad esempio sconsiglia alle ragazze di andare in sinagoga, per non esporsi al rischio dell’invidia indugiando nel guardare i vestiti indossati da altre. Pur in tale eccesso di scrupoli, la lettera veicola anche vere perle di saggezza, come quando insiste, rivolgendosi alla moglie, ad “abituare i figli nello studio dei Pirqè Avot, degli Avot di R. Nathan e del trattato [talmudico] Derek Eretz, poiché le buone maniere vengono prima della Torà”. Come a dire: l’integrità morale, la buona educazione e un bel carattere sono pre-condizioni per la stessa vita religiosa. Altrimenti – ecco due parabole rabbiniche citate nel testo – “si è come chi semina senza aver arato prima il campo: il vento spazza via i semi e li dà in pasto agli uccelli”; infatti “chi non sa controllare se stesso e non fa una siepe al proprio carattere, è come chi coltiva un campo senza avergli messo una protezione: arrivano i cinghiali e distruggono tutto”.
Massimo Giuliani