Vita, nomi e suoni
Nel monumentale documentario Shoah di Claude Lanzmann, l’ebreo ceco Richard Glazar (nell’immagine in basso) ricordava che a Treblinka c’era un cantante d’opera ebreo polacco di nome Salve; un giorno, mentre fuori dal Block si alzavano le fiamme della combustione di cadaveri, Salve “cominciò a salmodiare in lingua yiddish un canto a me sconosciuto: Dio mio, Dio mio, perché ci hai abbandonati? Fummo già dati alle fiamme in passato ma giammai rinnegammo la Tua Santa Legge”; le fiamme dei roghi erano già alte ma Salve nel Block continuava a cantare in yiddish.
Cantavamo a bassa voce nelle camerate per non farci sentire dal Kapo o a squarciagola durante gli appelli e al ritorno dai lavori forzati, costruimmo nelle carpenterie dei Lager chitarre e violini con le casse armoniche quadrate stendendo su di esse fili di ferro dei freni delle jeep al posto delle corde pur di suonare; scrivemmo su carta igienica e muri dei penitenziari, su sacchi di juta e retro di ciclostilati e fogli cronologici pur di creare musica.
I Campi di sterminio furono una catastrofe umanitaria ma attenzione a non rendere Auschwitz o Treblinka epicentri di una tanatologia della creatività e dell’ingegno umano; l’esplosione vulcanica di arte e musica in prigionia, cattività e deportazione capovolge e stravolge ogni statement della poetica e dell’estetica post–concentrazionaria.
Nei Campi provarono in tutti i modi ad animalizzare il popolo ebraico, dalle castrazioni agli esperimenti medici, dai tatuaggi ai trasporti su carri bestiame sino alla soppressione fisica; alla fine noi rimanemmo uomini – sia coloro che persero la vita che i sopravvissuti – mentre i nostri nemici divennero minerali e si pietrificarono, il nazionalsocialismo collassò, il Reich millenario morì dopo 12 anni di vita, i gerarchi SS morirono uno dopo l’altro o si suicidarono.
Questo è il segreto della storia del popolo ebraico, storia fatta di futuro; come insegnò un Maestro, è il passato a essere dinanzi a noi mentre il futuro è alle nostre spalle, perché il futuro è il nostro vero passato che attende di essere vissuto sino in fondo e alle estreme conseguenze.
Quanto sia vasta e non quantificabile l’opera di recupero dell’immensa letteratura musicale concentrazionaria non è ancora dato saperlo; ma è fondamentale dare a tutte queste musiche vita – suonandole –, nomi – se ancora non ne hanno – e suoni – se sono giunte incomplete o lacunose.
Dobbiamo farlo per gli Autori di queste musiche (anonimi o ben noti), per coloro che le ascoltarono e per tutti quelli che non ebbero il tempo di gioirne ascoltandole, per noi e per le future generazioni, per una più bella storia dell’Umanità; perché, come scrisse lo scrittore e filosofo francese Gabriel Marcel, “la speranza è la memoria del futuro”.
Francesco Lotoro