I have a dream
I had a dream. Ho sognato di trovarmi in una piccola città antica, con un Tempio piccolo dalla storia spezzata – uno di quelli il cui glorioso passato di commerci e convivenze si è interrotto duecento anni or sono o poco più, a seguito di un eccidio, analogamente a quanto accaduto nello stesso periodo dall’altra parte delle montagne, dove il ghetto di Siena è stato razziato e depredato, i sefarim profanati e i perfidi giudei assassinati nel nome della madre di Cristo.
Ho sognato che quel Tempio piccolo fosse, dopo tanto, affollato di persone, uno Shachrit di Shabbat. Tante persone diverse: alcuni tra gli ebrei rimasti, altri giunti da lontano, chi religioso, chi cercava aiuto per aprire il Siddur e capire come sfogliarlo. Ho sognato una signora che come Mary Poppins ha estratto dalla borsa un minuscolo orso per far giocare un bambino che gattonava, e quando mi sono voltata dopo l’amidà, la signora non c’era più ed il bimbo stringeva l’orsetto tra le mani.
E ho sognato un Rav, un moré accogliente, che nella derashà pronunciava parole di coraggio e di speranza. Nel mio sogno, il Rav diceva: guardate la storia di questa piccola città, guardate a secoli antichi quando qui si trovavano e vivevano insieme ebrei italiani e levantini, askenaziti arrivati con le navi, e qui sono stati a lungo accolti e lasciati in condizione di prosperare. Ma guardate cosa può l’odio, contro persone giunte dal mare qui come in una città poco lontana, dove un anno dopo la decisione papale di rinchiudere tutti gli ebrei d’Italia in una manciata di strade tra muri e cancelli, gli ebrei arrivati dal Portogallo sono stati considerati marrani solo perché inondati d’acqua benedetta poco prima di fuggire ed arrivare qui per poter continuare ad essere ebrei – trovando invece la morte per mano dell’Inquisizione.
Nel mio sogno, pensavo ai numerosi che ebrei non erano riusciti a restare, anusim che oggi tanto faticano a fare ritorno. E ai tanti ebrei che in Italia hanno vissuto, e in piccoli numeri tuttora vivono, con diverse provenienze, tradizioni, accenti. Alla varietà di canti e persino benedizioni (prima accendi le nerot Shabbat e dici la berachà, o viceversa?). Al pluralismo che ha fatto fiorire l’ebraismo italiano nei millenni passati, da quando alcuni commercianti sono arrivati in centro Italia dalla Terra d’Israele tre secoli prima della distruzione del Bet HaMikdash e del galut – e da allora, hanno mantenuto alcuni usi tutti loro.
Forse mi ero distratta seguendo il filo dei pensieri, forse era una fatamorgana portata dal caldo, ma nel mio sogno ho visto il Rav dire, siamo ancora qui nonostante abbiano nei secoli cercato di allontanarci e distruggerci, siamo qui a ricordare chi per non oltraggiare il nome divino si è fatto uccidere, siamo qui, tutti. E smettiamola di pensare che sia meglio ‘pochi ma buoni’, perché nove rabbini non possono dire il Kaddish e dieci ebrei non osservanti sì.
I have a dream.
Sara Valentina Di Palma
(30 maggio 2019)