Machshevet Israel
Sull’idea di Provvivenza

massimo giulianiDa una parte (almeno in Italia) è un po’ per colpa del Manzoni, che nei Promessi sposi ha messo in bocca al povero Renzo la frase “La c’è la Provvidenza!” e ha finito per cattolicizzare un’idea fondamentale di ogni fede monoteista. D’altra parte, la Shoah ha di fatto ostacolato a molti la comprensione dell’attributo della divina Provvidenza, che da sempre ha fatto e fa la differenza tra il concetto della divinità presso i greci e quello rivelato al e dal mondo ebraico. Se il termine talmudico ‘apikoros’ viene da Epicuro (ma l’etimologia è incerta) esso rimanda non a una concezione edonistica della vita, ma proprio alla teologia del filosofo del giardino: gli dèi, secondo la scuola degli epicurei, non si curano del mondo, restano indifferenti ai problemi degli esseri umani e non provvedono alle loro sofferenze. Il Dio di Israele, al contrario, ascolta il grido dei suoi figli, anche quello che non riesce ad esprimersi e resta strozzato in gola; si lascia commuovere dalle sofferenze del mondo; e con ardito antropomorfismo, secondo i maestri piange in luoghi nascosti. Il senso dell’abiura di Elishà ben Abujà – ein din ve-ein dayain, “non v’è giustizia né giudice” – è chiaro: questo mondo non è retto da un Dio che se ne cura. La scienza moderna, elaborando la teoria dell’evoluzione naturale, una nuova concezione di storia e il calcolo della probabilità, ha dato il colpo di grazia alla nozione di Provvidenza divina.
David Shatz, docente alla Yeshiva University e uno dei maggiori filosofi del giudaismo viventi, ha ammesso che “di tutte le idee predicate dalla religione, quella che si è coperta maggiormente di ridicolo da parte sia dei filosofi sia dell’uomo della strada è la nozione di Provvidenza divina”, portando ben sei ragioni che hanno contribuito a ridicolizzarla. Tuttavia è impossibile per il giudaismo farne a meno. Essa è e resta un’idea ebraica: il Dio creatore, Colui che ha voluto l’esistenza del mondo (questo lo insegna la religione) a prescindere dal come il mondo sia venuto all’esistenza (questo lo insegna la scienza), è al contempo il Dio che mantiene tale mondo in vita – she-hecheianu ve-qiemanu – ecco l’attributo della Provvidenza. Se rinunciamo a questo attributo, volenti o meno ricadiamo nell’epicureismo. Dire Provvidenza non è però dire pre-determinismo: tutto è previsto (da Dio) ma la reshut, la libertà è data, insistono i Pirqé Avot (III,19). Sempre Shatz racconta, in proposito, di aver scoperto in Maimonide un’idea accattivante: sebbene esista una remunerazione nell’universo (premio e castigo sono un aspetto della tradizionale dottrina della Provvidenza), “noi [esseri umani] vivremmo una forma diminuita di esistenza spirituale se mettessimo questa dottrina al centro della nostra consapevolezza: il Rambam ci raccomanda di abbandonare una prospettiva antropocentrica proprio mentre crediamo nella Provvidenza”.
Prescienza e provvidenza divine sono trattate nella Guida dei perplessi nei capitoli XVI e XVII della terza parte, dove si ricorda tra l’altro che “fondamento della Legge di Moshè rabbenu e dei suoi discepoli è che l’uomo sia dotato di responsabilità assoluta, ossia che per sua natura, scelta e volontà può fare tutto ciò che all’uomo è dato di fare”. Ancora Shatz: “Conforta ed è fonte di ispirazione sapere che la fede in Dio non richiede il credere che Egli provvederà a tutti i nostri bisogni materiali; esige piuttosto una chiara determinazione [da parte umana] a compiere la Sua volontà non importa quali siano i vantaggi”. Certo, vedere la mano divina dietro ogni evento storico più aiutare a vivere più tranquilli, anche nelle difficoltà (è il ragionamento di chi dice: se mi succede questo, ci sarà una ragione anche se io non la comprendo); ma al netto della gratificazione di essere sempre al centro delle attenzioni divine, è meglio per l’essere umano impiegare le proprie capacità e le proprie doti naturali per auto-aiutarsi quanto più è possibile.
Come spiegò il Rav di Boston, maestro di Shatz: “La dottrina religiosa sulla provvidente e caritatevole benevolenza di Dio, in ebraico bitachon, non deve essere equiparata alla folle dottrina mistica del quietismo, che nella sua estrema declinazione esenta l’essere umano dal dovere di provvedere alle proprie necessità lasciandolo così oziare in una ‘santa’ indolenza e apatia nell’attesa dell’intervento divino. Il riposo prescritto dall’halakhà è tutt’altra cosa, esattamente perché fa seguito allo sforzo dell’essere umano di migliorare e provvedere a se stesso”. In sintesi: non possiamo rinunciare all’idea, così profondamente ebraica, che la sussistenza del mondo sia nelle mani del Cielo e che Dio sia giusto giudice delle azioni che compiamo; al contempo non possiamo usare la fede nella Provvidenza divina per de-responsabilizzarci, come se il senso e il destino del nostro mondo non fossero nelle nostre mani, non dipendessero dalle nostre azioni. Più la scienza scopre le leggi autonome, intime ed intrinseche della natura, e più si fa chiaro che tra le maglie di quelle leggi l’essere umano resta, nel bene e nel male, signore del proprio destino.

Massimo Giuliani

(7 giugno 2019)