Funzioni e finzioni

claudio vercelliGiustamente l’allarme sulle intolleranze e la nuova ondata di diffusione dei pregiudizi sta nelle prime righe delle rispettive agende politiche, culturali e civili. L’impegno devoluto in tale senso dall’Unione, dalla Comunità di Roma, da tutti gli organismi ebraici o ad essi affini, non ha ad indirizzo la sola tutela degli ebrei, italiani e non, ma più in generale l’attenzione verso la coesione e la coesistenza sociale. Non per un atto di gratuita “bontà” ma nella consapevolezza che senza le seconde non può sussistere la prima. Se si crepa e si sgretola la reciprocità sociale, il solidarismo, lo stesso senso civico, i primi ad essere minacciati sono i membri delle minoranze. Ribadito questo ovvio riscontro (che tale, tuttavia, per certuni non lo è in alcun modo) rimane il fatto che lo scadimento del “dibattito pubblico”, e con esso delle reazioni che si accompagnano, sembra essere giunto ad un punto tale di non ritorno. Tra umoralità assortite, atteggiamenti “di pancia”, invettive, insulti ma anche indignazioni a manetta, le comunicazioni collettive sembrano essersi ridotte ad una specie di arena della prevaricazione, senza altro scopo che non sia l’offesa. Un segno, quest’ultimo, soprattutto di impotenza. Poiché si urla soprattutto quando si pensa (o si riscontra) che i fatti non siano modificabili con l’azione ragionata e condivisa. L’impotenza sembra essere una caratteristica di questi anni: le società si sentono sempre più spesso deprivate della capacità di incidere nei processi decisionali, quelli destinati a contare. La politica, quanto meno una parte di essa, ha raccolto e “nobilitato” questo declivio, traducendolo in comune sentire o, come dicono certuni, in apparente “buonsenso”. Il popolo (categoria sdrucciola, che si piega ad usi e abusi pressoché infiniti), a dovere dare credito ad una tale impostazione, d’altro canto reclamerebbe, come sua legittima funzione, il diritto alla rabbia. Non è però così. In realtà, dietro questa finzione – poiché di ciò si tratta e non di altro – c’è semmai la riduzione stessa della politica ad un insieme di frasi incongrue, sospese tra il velleitarismo della loro intraducibilità in concrete azioni e l’offensiva evanescenza dell’aggressione verbale. L’una cosa e l’altra sembrano avere sostituito l’obbligo di dotarsi di un programma, di cercare di esservi coerenti, di chiedere agli elettori di essere giudicati sulla base della proposte avanzate e dei risultati quindi ottenuti. In un’eterna campagna elettorale in pure stile talk show, il cui limite, in tutta probabilità, sarà dettato solo dal duro rendiconto dei fatti, quelli per cui, anche se si gioca a rinviarne il giudizio, più prima che dopo si impongono con la loro forza. Che poi oggi il campo dei pregiudizi, delle intolleranze, delle negazioni, delle fake news sia anche quello della politica stessa ridottati a gioco delle raffigurazioni, delle rappresentazioni mediatiche fini a se stesse, è una consapevolezza da cui ripartire non per alzare il dito contro chicchessia, esercitandoci anche noi nell’inflazionata arte del “J’accuse!”, ma per capire le ragioni della loro pervicacia. Poiché il vuoto dei pensieri e delle scelte si riempie con il pieno dei rancori. Se alle funzioni e ai giudizi si sostituiscono le finzioni e i pregiudizi, allora molto rischia di essere perso. E non solo nell’oggi ma anche e soprattutto per il tempo a venire. Soprattutto quando questa falsificazione viene presentata, ancora una volta, come espressione invece di “autenticità”, di veracità, di sincerità. Le menzogne – d’altro canto – da sempre si presentano sotto la maschera suadente delle false verità, tali perché ergono la banalità a regime di espressione, di comunicazione, di relazione, di identità collettiva.

Claudio Vercelli