Attorno al tavolo

sara valentina di palmaSarà l’improvvisa calura, dopo mesi miti di piogge primaverili. Sarà forse la mancanza di sonno continuato, tra dentizioni, incubi altrui e miei, lavoro arretrato da smaltire. E magari sarà pure un’irragionevole ed ingenua fiducia nel genere umano, per via di quella creazione che rispecchia l’immagine del Creatore e che a noi sta completare, onorandola giorno per giorno.
Fatto sta che sogno sogni confusi, vividissimi ed affastellati. Tra un chagalliano volo sulla cittadina svedese in cui ho vissuto (e che di recente ed in sordina è apparsa anche su alcuni media italiani per via di una strana esplosione che ha investito una palazzina in centro) e le immagini puzzle del figlio bar mitzvà di un’amica, festeggiato dai membri della mia comunità intorno al tavolo di sala di mia nonna Sole nell’amatissima casa di anni lontani, ho sognato di mettere pace in una coppia di conoscenti. Pardon, mettere ordine prima che pace, e in una ex coppia, in cui le uniche comunicazioni avvengono tramite i reciproci legali – o almeno avvenisse così, dato che una parte scrive email e l’altra risponde tramite messaggi al cellulare, ai quali il primo interlocutore a sua volta replica per mail (cercando di includere ogni volta il riferimento al messaggino precedentemente ricevuto, in modo da non perdere il senso della conversazione). Tutto molto faticoso dunque, e difficile mantenere il senso della conversazione.
Nelle mie manie di grandezza notturne (almeno nei sogni, me le permetto) mi sentivo un po’ come Moshe Rabbenu il quale, fino al preziosissimo consiglio del genero Itrò sulla possibilità di avvalersi di saggi aiutanti, cercava da solo di metter pace tra i membri del suo litigiosissimo, neonato popolo. Ma nella mia ridimensionata burbanzosa megalomania, mi accontentavo appunto di mettere ordine, consapevole che la pace è assai lontana, ma sicuramente non incentivata dalla confusione tra botta e risposta in differita cronologica e su diversi canali comunicativi. Un po’ insomma come disquisire di uno o addirittura più argomenti su diverse testate giornalistiche, social media, bollettini comunitari.
Certo, l’aggettivazione poco pertinente non aiuta, a meno di risalire ad uno degli arcaici, originari significati di un vocabolo lanciato come un dato in un gioco d’azzardo: piuttosto che offensivo, meglio ritenerlo elogiativo, e considerare le parole dell’altro come ‘stillanti miele’ e ‘piene di dolcezza e soavità’ (che suona in effetti meglio del crudo termine ‘mellifluo’). Questo forse potrebbe non viziare ideologicamente un dialogo. Come neppure aiuta il lamentoso atteggiamento da yiddishe mame volta ad instillare sensi di colpa in massicce dosi, per la gioia degli psicanalisti che pure devono guadagnarsi il pane: con tutto quello che ho fatto per farti studiare, ecco ora come mi ripaghi! Del resto, se il tentativo di pacificare relazioni familiari incentrate su gelosia, rancore e prevaricazione percorre tutto il trattato di Bereshit, ben poca cosa è la piccola tragedia di una relazione sfilacciata.
Così. Dato che c’ero mi sono permessa pure di sognare che attorno a quell’antico tavolo di sala sotto il quale giocavo da bambina, e che mi sentivo dire avrei ereditato un giorno (desiderando che quel giorno non arrivasse mai), ci fossero in tanti, da quelli cui ero più vicina e che mi avevano accolta dal mio trasferimento universitario senza chiedermi poi più che tanto (non tutta la genealogia di famiglia e le sudate carte ed il patentino abilitante che non possedevo), a quelli che invece per anni mi avevano poi fatto penare, dai più accoglienti ai più sospettosi, fino a quanti avevano brutalmente giudicato le mie frequentazioni della HaBait HaPatuach a Gerusalemme (ma cosa ci vai a fare, era stato il commento più gentile che mi ero sentita rivolgere, e a nulla erano valsi i miei pacati e forse balbettanti e maldestri tentativi di spiegare che proprio in quella città avevo bisogno di andare a vedere tolleranza ed inclusione, e proprio lì avevo sentito una rabbina americana raccontare con le lacrime agli occhi di essere stata presa a sassate).
Perché sul tavolo di mia nonna Sole, che vedevo come in un’istantanea, stavano giocando tutti una specie di memory in ebraico, o forse a ben guardare un memory ebraico che era un vero e proprio dettagliato gioco di memoria storica ed identitaria, con tante diverse realtà che si incrociavano tutte in una caleidoscopica composizione, ed io che osservavo fuori campo mi sentivo serena ed appagata. Osservavo che, per esempio, il problema dell’assimilazione non riguarda specificamente la realtà italiana piuttosto che altre, ma più in generale le società ebraiche post emancipazione, e dall’apertura dei cancelli dei ghetti ed il conseguimento della cittadinanza in poi l’assimilazione si è aggirata per l’Europa mangiandosi generazioni e generazioni, rallentata solo da un parziale ripensamento e ritorno vuoi da chi si era reso conto che alcuni modelli imitativi adottati a fine Ottocento potevano essere eccessivi (perché fare una milà ad un bambino con una vestina identica a quelle da battesimo, ad esempio, o rischiare di relegare la lingua sacra in un angolo del siddur per adottare quasi in toto quella civile? Perché abbellire una funzione con la musica dell’organo quando in realtà non si possono suonare strumenti musicali di Shabbat e di Moed?), vuoi da chi sopravvissuto alla Shoah si stringeva intorno a quanto rimaneva del proprio retaggio con l’intento di rivitalizzarlo. Meglio forse la riforma allora, che parimenti ha avuto maggior successo nei paesi in cui la popolazione ebraica aveva conseguito un alto livello di uguaglianza e di integrazione. Meglio forse anche oggi, se pensiamo che la gran parte degli ebrei americani è riformata, ed Israele vive grazie anche ai loro finanziamenti ed al loro sostegno.
Osservavo con orgoglio che l’ebraismo italiano era cresciuto nei millenni grazie alla propria capacità di far convivere provenienze ed identità diverse, forse non sempre pacificamente amalgamate, ma poi quando mancava il decimo per minian poteva anche restare tra una scola e l’altra e contare per entrambe nella stessa tefillà accontentando tutti, come ricordo essere accaduto a Firenze. Ed ebrei quasi pionieri sono sopravvissuti in piccolissime realtà dove forse il vino kasher si beveva solo per Shabbat (o forse nemmeno), ma sempre ebrei erano e al mondo mettevano figli ebrei, o magari figli non ebrei i quali poi però avrebbero carsicamente scavato nel proprio passato per fare ritorno – loro, o forse i loro nipoti. Magari non osservavano tutte le mitzvot, ma chissà quanti degli ebrei italiani le osservano e le possono osservare davvero tutte – è possibile farlo nelle nostre realtà ebraiche di piccola minoranza? È forse un pensiero troppo riformato provare a mantenerne il più possibile, magari a partire da quelle etiche che forse sono poi le più difficili da mantenere? Osservavo che forse si tratta di decidere quale ebraismo italiano desideriamo per il futuro e che tipo di inclusività ci sia oggi. Osservavo infine che storicamente la spaccatura tra ortodossia e riforma è stato spesso un evolversi di situazioni che ha prodotto anche curiosi fenomeni, per cui ad esempio chiamiamo solitamente ‘tempio’ il nostro Bet HaKnesset e questo termine è stato introdotto durante la riforma tedesca di primo Ottocento; oggi nelle nostre sinagoghe ortodosse, come nelle prime sinagoghe riformate europee, le signore siedono spesso su un lato nella stessa sala di preghiera degli uomini invece che in un’area sopraelevata e chiusa da grate, così come si celebrano matrimoni all’interno della sinagoga mentre prima così non era, ed i discorsi rabbinici sono tenuti nella lingua secolare del proprio paese. Oggi, nell’ortodossa Italia le donne vengono al tempio anche in pantaloni, solitamente a capo scoperto anche se sposate, e la gran parte di esse non taglia i capelli dopo il matrimonio per coprirli con una parrucca: tutte innovazioni portate avanti dall’Haskalà. E grazie al cielo festeggiamo con gioia le nostre figlie che diventano Bat Mitzvà senza considerare la maggiorità religiosa femminile come un’innaturale innovazione apostatica. Diverse sono state le innovazioni riformate su cui i tradizionalisti non erano disposti a transigere, come l’orario di inizio della tefillà e la sua durata, oggi comunemente accettate anche in seno al mondo ortodosso.
Ci poteva essere conciliazione, in fondo, come l’ebraismo è sopravvissuto nei millenni grazie alla capacità di introdurre innovazioni ed accettare le diversità, e potevo dunque svegliarmi soddisfatta per una volta. E sapere che si può sorridere all’altro invece di sprizzare astio. Poi, perché io non ci fossi a sedere tra le persone attorno a quel tavolo, o perché dovessi sorvolare la città invece di camminarci dentro, è tutto da capire, e mi scuso di non avere gli strumenti nella mia ignoranza di chi può avvalersi solo del titolo di madre (ebrea), lavoratrice, scribacchina.

Sara Valentina Di Palma