Periscopio – Mohamed
Tra le varie forme di antisemitismo, com’è noto, c’è anche la pretesa che tutti gli ebrei, come popolo e come individui, debbano sempre comportarsi in modo perfetto e ineccepibile, e che ogni loro errore, leggero o grave, vero o inventato, debba sempre essere severamente denunciato e stigmatizzato, laddove tutti gli altri, invece, meritano sempre giudici molto più benevoli o distratti. È una vecchia storia, che conosciamo bene, e sulla quale non vale la pena tornare.
Ben Gurion, come già ricordai tempo fa, disse che lo stato di Israele sarebbe veramente nato non quando le sue strade sarebbero state piene di uomini santi e perfetti, ma quando un poliziotto ebreo avrebbe acciuffato un ladro ebreo per farlo condannare da un giudice ebreo e consegnarlo poi a secondini ebrei. Un mio amico israeliano, con amara ironia, ha richiamato la battuta per dire che il sogno si è oggi avverato al di là delle aspettative.
Mi tornano alla mente queste considerazioni davanti alla notizia – ricordata su queste pagine lo scorso 14 giugno – secondo cui alcune frange dei tifosi della squadra di calcio del Beitar di Gerusalemme – già nota per reiterati episodi di intolleranza anti-islamica e anti-araba – hanno protestato per l’acquisto del calciatore nigeriano Ali Mohamed, del quale – al di là della religione professata, che è la cristiana, e non l’islamica – non piacerebbe tuttavia il nome. Che dire? La doverosa accettazione dell’assoluta “normalità” degli ebrei deve portare ad accettare come assolutamente “normale” anche il fatto che essi possano essere tranquillamente razzisti? Che possano mostrare di ignorare, o di essere del tutto indifferenti a come delle persone vengano considerate, in molte parti del mondo, in ragione del nome che portano, anche quando questo nome non è Alì o Mohammed, ma, magari, Moshe, Ariel, Amos, Yehoshua, David, Eli, Dan? Che possano avere dimenticato quello che hanno passato, per il loro nome, i loro nonni e bisnonni? O il modo in cui sono morti?
Lo stesso pezzo apparso sulle nostre colonne riportava anche il commento all’episodio riportato da un noto quotidiano italiano, specializzato nell’andare a caccia di qualsiasi notizia che possa mettere Israele e i suoi cittadini in cattiva luce, e nel tacere sistematicamente tutte quelle che possano ottenere l’effetto opposto (ma forse di notizie di questo genere non ne esistono). Che dire, al proposito? Dobbiamo rimproverare questo giornale? No, è bene che tutto si sappia, e forse, se non fosse stato per quell’articolo, la notizia non sarebbe stata riportata in Italia, e noi non la conosceremmo.
Tutto normale, quindi. In Israele ci sono i ladri, i truffatori, i corrotti. E i razzisti. Certo, un ebreo razzista suona come un ossimoro, ma anche il fatto che a Napoli, la mia città, molti votino per un partito il cui leader diceva, non tanto tempo fa, che i napoletani avrebbero scarsa consuetudine con l’acqua e il sapone, suona un po’ strano. Ma non mi permetto di giudicare le scelte di nessuno, anche le mie sono certamente opinabili. Quindi basta, bisogna accettare la realtà. Tutti gli uomini sono uguali, tutti i Paesi sono uguali, tutti i tifosi “ultras” sono uguali, tutti gli organi di giustizia sportiva sono uguali, in quanto si comportano sempre e dovunque con il medesimo rigore e la medesima efficienza. Non esistono, per fortuna, aree riservate e zone protette di moralità superiore. Una forma di utopia messianica al ribasso: il lupo e l’agnello vanno finalmente d’accordo, non perché il primo è diventato mansueto come il secondo, ma perché entrambi si sono fatti furbi, si danno di gomito e vanno insieme, tutti contenti, ad andarsi a mangiare le galline. O a insultare, a due voci, i giocatori (topi? maiali?) dal nome antipatico. Che bello. Sono proprio contento.
Francesco Lucrezi, storico