La barca è piena

claudio vercelliL’impressione che si avverte sempre più spesso è quella di vivere un’età di transizione, ossia di passaggio da qualcosa di già conosciuto (e quindi anche “riconosciuto”, nel senso che di esso si sa quel tanto che è necessario sapere per comportarsi in maniera adeguata, in grado di fare sì che alle azioni corrispondano determinati risultati), ad un orizzonte a dir poco indeterminato. L’indeterminatezza nasce dal combinato disposto tra il declino della prevedibilità e della calcolabilità nella vita di ogni giorno, da una parte, e dall’altra per via del senso di espropriazione che viviamo sulla nostra pelle quando qualcosa di più grosso di noi ci precipita addosso senza che per parte nostra si possa fare alcunché per evitarlo. Quanto si presenta come non conosciuto (peggio ancora, non conoscibile con gli strumenti e le competenze che si hanno a disposizione), incute inesorabilmente timore. Non è un problema che riguardi l’intera umanità ma una parte di essa, quella che nel passato – non a caso – dopo la fine del catastrofico periodo delle guerre mondiali, ha cercato di “mettere in sicurezza” il suo destino. Quando parliamo di crisi dei ceti medi nei paesi a sviluppo avanzato, tra questi l’Italia, ci riferiamo a ciò. Ovvero a questa caduta progressiva in una sorta di limbo di una parte importante delle nostre società. In esse sempre più spesso il vero problema non è il liberarsi dallo sfruttamento e dalla subordinazione, ovvero l’emancipazione, bensì il confrontarsi con l’irrilevanza alla quale ci si sente invece sempre più spesso condannati. Se non per se stessi, per i propri figli e nipoti. Si è irrilevanti quando non si è considerati oggetto di un qualche interesse, fosse anche solo quello che deriva dal costituire forza lavoro da utilizzare per parte altrui. Uno dei segni più importanti di questa transizione è dettato dalla difficoltà che la politica manifesta un po’ ovunque nel governare i cambiamenti in atto, semmai subendone anch’essa gli effetti di lungo periodo. Non a caso, chiediamo ai politici attenzioni e riguardi, considerando le une e gli altri indice di quella protezione collettiva senza la quale ci sentiamo indifesi. Come individui, infatti, non ci bastiamo. Sappiamo che senza gli “altri”, il loro concorso solidale, consapevole o meno che sia, non riusciremmo a vivere un’esistenza accettabile, ovvero decorosa. Poiché la vita richiede anche il continuo intervento di ciò che l’esistenza individuale medesima da sé non può altrimenti produrre. E la politica, da quando esiste come espressione degli Stati moderni, assolve essenzialmente a questa funzione, organizzandosi come forma di protezione collettiva. Quanto poi questa sia inclusiva, ovvero riesca a tenere insieme persone e gruppi diversi, è invece un discorso diverso, a sé stante. Abbiamo pensato che la diffusione e il consolidamento della cittadinanza repubblicana e costituzionale, quella che non “discrimina” in base all’origine ma alla lealtà (o alla sua mancanza) alle istituzioni comuni, fosse l’orizzonte dell’evoluzione e del progresso comuni. Ciò che chiamiamo “Occidente” risponde essenzialmente a un tale dato di prospettiva, non volendo giudicare gli individui aprioristicamente, per la loro “appartenenza” di origine, ma piuttosto per la condotta concretamente assunta di volta in volta. Una tale prospettiva, tuttavia, come già si osservava, in questi anni si è andata inceppando. Poiché sta cambiando, tra le altre cose, il mondo dell’economia, della produzione di ricchezza, della sua distribuzione e, con esso, il modo di pensare e vivere coloro che ci stanno accanto: non più interlocutori ma potenziali competitori, che lottano per le nostre stesse risorse, mettendo a rischio ciò che resta del nostro benessere. Il disagio che ci deriva da un tale riscontro – oramai generalizzato – si manifesta in molti modi. Non può essere liquidato con alterigia moralistica (“sono degli ignoranti, degli zoticoni”) ma neanche accettato supinamente, tanto più quando assume le forme dell’ostilità diffusa, patologica, inarrestabile. Un’ostilità che è rivendicazione del diritto di aggredire, di prevaricare, al limite di praticare una disumanità esibita come una forma di ritorno ad una presunta autenticità da individui variamente indignati, arrabbiati, infuriati ma accomunati da un fanatismo cieco e apocalittico. Un’ostilità che finge di volere tutelare, cautelare, vigilare, presentandosi come una sorta di eroismo contro il cattivo “senso comune” di certuni (quello dei “buonisti”, dei “radical chic” e quant’altro, quasi a volere comporre una sorta di dizionario della distruzione dei legami sociali); simulando inoltre di volere fare la guerra alle pessime élite della globalizzazione quando, in verità, è solo un meccanismo di smaccata autopromozione, tutto giocato sulla violenza esibita, a partire da quelle delle immagini e del diluvio quotidiano di dichiarazioni rabbiose. Una politica che non decide nulla, se non ciò che va tagliato, amputato ma che nel mentre millanta un inesistente futuro a venire, dove i torti saranno finalmente ripagati e la giustizia regnerà sovrana. Una politica lisergica, ingannevole ma, al medesimo tempo, acquiescente alle angosce dei molti, di cui ne coltiva la trasformazione in paura. Un parte della classe dirigente italiana, e non solo essa, ha oramai sposato questo indirizzo, francamente intollerabile. Poiché dietro alla sua stessa capacità di raccogliere consenso, c’è un vuoto totale, coperto dall’esibizionismo delle parole, dei gesti, di un presenzialismo esasperato. Non è quindi un pieno di idee, ancorché rudi ma determinate; e non è neanche una pur sussistente violazione delle regole consolidate nel nome, tuttavia, della necessaria tutela degli interessi sovrani in regime di “eccezione”, bensì il passo delle oche che marciano con le loro baionette arrugginite verso il vuoto. Degli interessi sovrani, peraltro, manco c’è l’ombra di una qualche idea. Non è allora un caso se la recentissima visita di Vladimir Putin a Roma (una capitale temporaneamente restituita al decoro urbano nelle strade interessate, all’interno di un perimetro di sicurezza invalicabile), esponente dichiarato dell’illiberalismo, del patto d’acciaio tra gruppi oligarchici e una nuova cleptocrazia, abbia trovato astanti interessati. Non nel nome, in sé legittimo, di relazioni diplomatiche pur necessarie, ma dentro quel meccanismo ad incastro, nel quale l’Italia rischia, prima o poi, di rimanere stritolata, che disintegra il sistema vigente di regole non perché abbia un chiaro disegno alternativo ma in quanto cerca, in posizione sudditante, di ricavare un qualche dividendo dagli stravolgimenti in corso. Un tempo non troppo lontano si diceva, all’atto del respingimento dei profughi, che “la barca è piena”. Il rischio è che da oggi in poi si inizi a dire – e non solo a coloro che si presentano alle nostre frontiere ma anche ai molti che già le abitano – che non c’è più spazio (economico, sociale, culturale, civile) per chi sta rischiando di diventare irrilevante, quindi invisibile, poiché escluso dai percorsi di redistribuzione della ricchezza. Se è vero che la storia ci racconta del mutamento perpetuo degli ordinamenti umani, non è ancora meno vero che dovremmo avere imparato a dubitare di quegli incendiari che si presentano come la voce del «popolo» quando in verità sono solo la eco dei propri interessi.

Claudio Vercelli