Machshevet Israel – Sogni e scale

massimo giulianiIl tema della prossima Giornata europea della cultura ebraica è, anzi sono i “sogni”. Splendido contenitore, che davvero offre la possibilità di dire qualcosa di ebraico a partire dal patriarca Giacobbe giù giù fino a Sigmund Freud (o Theodor Herzl, se preferite). Il tema è anche sottotitolato: “una scala verso il cielo”, e qui arriccio il naso. Senza dubbio Giacobbe sognò una scala, su cui vide un via vai di angeli, ma in cielo non salì affatto e la sua ‘visione notturna’ aveva piuttosto lo scopo di fargli apprezzare la terra su cui stava dormendo; infatti al suo risveglio disse: “Il Signore è in questo luogo e io non me ne ero accorto!”. Si tratta dunque di una scala per far scendere la Shekhinà, non per far salire Giacobbe. Nel giudaismo si è preoccupati più di far scendere la santità in questo mondo, attraverso l’osservanza delle mitzwot, che di far salire i santi nel mondo superno. In questi opposti vettori, catalizzati rispettivamente in homo halakhicus e homo religiosus, rav Joseph Soloveitchik vedeva la differenza qualitativa tra il giudaismo e le altre religioni. Persino la qabbalà, che di ascese mistiche se ne intende (si ricordi la lettera del Ba’al Shem Tov, l’unico documento scritto che ci resta di lui, in cui descrive al cognato la sua ascesa al settimo cielo), immagina l’uomo sì come albero ma rovesciato, le cui radici sono “in cielo” ma la cui chioma e i cui rami (testa e braccia) sono protesi verso la terra. Insomma, sullam – scala – va bene ma per scendere, per santificare il mondo, più che per salire e trascenderlo.
Il sogno come spazio di comunicazione tra cielo e terra non è un’esclusiva del mondo ebraico. Non v’è cultura antica che non privilegi la notte e l’attività onirica per quel tipo di comunicazione e interpretare sogni è stato un buon business da quel tempo. Nel II secolo dell’era volgare il greco Artemidoro scrive un Libro dei sogni, che impressionò lo stesso Freud. Ma già nell’ambito degli scritti apocalittici giudaici (in Enoc) esisteva un Libro dei sogni e i maestri del Talmud non tralasciarono certo tale materia: in Berakhot ci si chiede quale sia il valore dei sogni; se essi dicano il vero o il falso; come si distingue un sogno buono da uno cattivo; chi sia titolato a interpretare i sogni di chi sogna… L’opinione di Rav Chisdà è: “Un sogno non interpretato è come una lettera non aperta e non letta” (55a). Ma dice anche: “Un sogno cattivo è preferibile a un sogno buono”. Che infatti ne esistano di buoni e di cattivi, di utili e di pericolosi lo insegna la storia biblica di Giuseppe, detto appunto il sognatore: i sogni che si auto-interpretava gli portarono male, i sogni che interpretava agli altri gli portarono bene (questo non è nel Talmud, lo dico io).
Nella recente edizione italiana di Berakhot si cita dallo Shulchan ‘Arukh l’halakhà per cui “chi fa un sogno e ne rimane turbato, anche se il significato del sogno di per sé non è cattivo, deve andare davanti a tre amici al mattino e recitare la formula per il ‘miglioramento del sogno” (Orach Chayim 220:1). Insomma, proprio perché potrebbe trattarsi di un messaggio dall’alto, è bene che un saggio – o un esperto – ci aiuti a interpretarlo, altrimenti rischiamo di fraintenderlo, di piegarne il senso ai nostri bisogni o capricci, di prendere lucciole per lanterne (scambiare una nostra fissa per una profezia). Il Talmud ci presenta uno di questi interpreti, un tal Bar Haddayà, vero psicoanalista ante litteram, ma pare che in un certo momento a Gerusalemme vi fossero ben ventiquattro psicoanalisti di questo tipo.
La casistica onirica, si può intuire, è potenzialmente infinita come i sogni umani, soprattutto se si parte dal presupposto che essi siano messaggi in codice, segni e simboli, premonizioni, ecc. Il confine tra interpreti di sogni e maghi era, è e sarà sempre sottile come un capello. Inoltre la scala dei sogni, ebraicamente, va in discesa: se un sogno non aiuta a vivere meglio su questa terra, è probabile che sia un cattivo sogno. In sogno, a Gabaon, re Salomone chiese a Dio un cuore umile capace di discernere il bene e il male, giusto nel giudicare, e gli fu concesso. Più tardi però si fece prendere da ben altri sogni: tante mogli e concubine, migliaia di cavalli in splendide scuderie, grande accumulo di argento e oro… e cadde nella hubris del potere. Sui sogni, anche quelli buoni ossia le giuste cause, bisogna costantemente vigilare affinché non degenerino.
Un mio sogno? Svegliarmi domattina (il sogno parla di notte, ovviamente) in un mondo nel quale tutti ci sentiamo custodi della terra, responsabili per ogni essere vivente: umano o animale o vegetale che sia, un mondo in cui i miei figli non siano preoccupati per la mancanza di risorse e di bellezza per i loro figli. Come insegnava settant’anni fa il rabbino David Prato: “La civiltà ebraica possiede leggi con le quali vengono tutelati non solo i diritti dell’uomo ma anche quelli della terra… [è] da questa madre generosa che l’uomo è scaturito, che ci nutre e che maternamente ci accoglierà quando cesserà la nostra vita”. Custodi e responsabili? Non sarebbe un sogno, se lo volessimo.

Massimo Giuliani, Università di Trento