Israele, la speranza
e la democrazia

SoraniLa grande letteratura israeliana è una boccata d’ossigeno davanti a un orizzonte che si fa sempre più cupo. Emergo dalla lettura di Tre piani di Eshkol Nevo (traduzione dall’ebraico di Ofra Bannet e Raffaella Scardi, Neri Pozza, Vicenza 2017) e alcuni pensieri, alcuni confronti si affacciano con forza. Tranquillizzo i lettori: questa non vuole assolutamente essere una recensione, piuttosto una riflessione a voce alta stimolata dalle ultime pagine del libro. Innanzitutto, la profondità rigeneratrice dell’analisi intorno a un tema classico e apparentemente “esaurito” come la psicoanalisi freudiana:
«Capisci, Sigmund Freud era un uomo molto intelligente, ma ieri sera, dopo aver terminato l’ultimo volume dell’opera omnia e averlo posato sul comodino, ho pensato che un errore l’ha fatto. I tre piani dell’anima non esistono dentro di noi. Niente affatto! Esistono nello spazio tra noi e l’altro, nella distanza tra la nostra bocca e l’orecchio di chi ascolta la nostra storia. E se non c’è nessuno ad ascoltare, allora non c’è nemmeno la storia. Se non c’è uno così, a cui svelare segreti, con cui sciorinare ricordi e consolarsi, allora si parla con la segreteria telefonica, Michael. L’importante è parlare con qualcuno. Altrimenti, tutti soli, non sappiamo nemmeno a che piano ci troviamo, siamo condannati a brancolare disperati nel buio, nell’atrio, in cerca del pulsante della luce».
Trovo illuminante, anche sul piano della ricostruzione psicologica individuale, questa capacità di ritrovare e rinnovare l’interpretazione freudiana della personalità (il povero Io stretto tra le pulsioni inconfessabili ma ineludibili dell’Es e le censure castranti del Super-io, giudice inflessibile) sublimandola sul piano meta-individuale, riscoprendola attiva e cogente sul terreno del dialogo, dell’indispensabile rapporto con l’altro che siamo noi a volere e a creare giorno per giorno.
E poi, proprio sulla scia dell’inter-individualità riscoperta, la dimensione sociale e collettiva, capace di dare un senso e obiettivi concreti alla nostra esistenza; quell’aspetto condiviso e convissuto che continua a caratterizzare la democrazia israeliana, facendone qualcosa di progressivo, una realtà da conquistare e per la quale lottare:
«Ieri ho partecipato alla Manifestazione del milione, a Tel Aviv. (…) Siamo riusciti ad arrivare con il risciò in via Weizmann, dove ci aspettavano alcuni attivisti che ho assistito in questa ultime settimane, alcune persone della tenda degli psicologi, e Avner Ashdot. Abbiamo marciato insieme, lenti – Avner non può camminare in fretta – fino alla piazza. Ci siamo sistemati di fronte al palco. Non troppo vicino, né troppo lontano. Soffiava un venticello piacevole. (…) La piazza si andava riempiendo sempre di più: chi portava cartelloni enormi e ben disegnati, chi ne portava di piccoli, improvvisati. Ai margini, ho notato anche gesti quotidiani: due ragazzi che si baciavano appassionatamente, una piccola coda davanti al bancomat, un bambino caduto in lacrime. La solita danza della vita. Eppure, ho pensato, qui sta succedendo anche qualcosa di straordinario: un’infinità di persone non più disposte ad accettare le cose come sono, credono ci sia una possibilità di riparare e per farlo si riuniscono in un unico luogo. E’ proprio una congiuntura speciale.
Alle dieci di sera sono saliti i primi oratori. Altri li hanno seguiti. Chi diceva cose intelligenti, chi ne diceva di meno intelligenti. Ma in tutti gli oratori percepivi un filo conduttore di integrità a collegare i discorsi.
Fra un discorso e l’altro si esibivano cantanti e gruppi a me ignoti. (…)
Prima di mezzanotte abbiamo cantato l’inno nazionale insieme ad altre trecentomila persone. Ho sentito che le parole dell’inno sono vere, la nostra speranza non è ancora perduta. La mia speranza non è ancora perduta.
Sapevo che era una sensazione passeggera, ma per un attimo l’ho posseduta, Michael, per un attimo è stata mia.»
Certo, le parole che Eschkol Nevo mette in bocca a Dvora – rigido giudice in pensione che si apre a un mondo di democrazia vissuta e in sviluppo narrando questa sua metamorfosi esistenziale a una vecchia segreteria telefonica in cui risuona la voce del marito morto (anche lui severo giudice) – si riferiscono al movimento di protesta delle tende e alla grande manifestazione popolare del 2011; a una situazione non recentissima, dunque. Eppure, nonostante tutte le incertezze, le difficoltà, i nodi irrisolti della società israeliana alla vigilia di una nuova prova elettorale, credo che nel Paese si respiri tuttora quell’aria di partecipazione e coinvolgimento che fa della democrazia una cosa viva, capace di produrre speranza (Ha Tikwah, appunto) e voglia di lottare. Magari da punti di vista opposti e mirando a obiettivi opposti, ma gli israeliani ancora credono, ancora aspirano, ancora si battono: e questo contrasto civile per obiettivi sociali è appunto il sale della democrazia.
In Italia invece – eccoci agli inevitabili confronti – la gente pare molto più disincantata e disillusa, sembra aver perso la fiducia e la forza di combattere per degli ideali, o anche solo per delle mete concrete e utili. Il tono etico e civile della nostra vita degrada, il clima di declino è palpabile. E molti paiono purtroppo rassegnarsi all’egoismo montante, al razzismo crescente e sempre più diffuso, all’indifferenza individualistica generalizzata. Sintomi inquietanti di esaurimento progressivo.

David Sorani