Senso e controsenso

claudio vercelliAffermava il sociologo francese Pierre Boourdieu: «di tutte le forme di persuasione clandestina, la più implacabile è quella che è esercitata semplicemente e attraverso l’ordine delle cose». Non c’è nulla di più potente, nella vita di ogni giorno, della pressione esercitata da ciò che ci pare ovvio. Non ci pensiamo, nel mentre la quotidianità esercita una forza costringente. Non a caso, quindi, il grande campo di battaglia della politica è quello della conquista del senso comune, di quell’ “identico pensare” che orienta le scelte della maggioranza delle persone. Poiché attraverso esso si condizionano le condotte dei più, soprattutto in un’epoca come la nostra, dove il tempo di vita è schiacciato sul presente. Per capire cosa significhi la locuzione “senso comune”, nella sua più ampia accezione, è necessario rifarsi al vocabolario della lingua italiana della Treccani, laddove ad un certo punto si dice al riguardo che: «nell’uso corrente, la normale intelligenza delle cose, che sarebbe comune a ogni individuo equilibrato, e più genericamente il modo d’intendere e di giudicare che sarebbe proprio della maggior parte degli uomini: “il senso comune è un giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano” (Vico); […] In frasi negative, indica validità logica: “fai dei discorsi che non hanno (o sono senza, sono privi di) senso comune, illogici, assurdi”». Fin qui una possibile definizione da dizionario. C’è tuttavia dell’altro. Poiché se si parla di senso comune non ci si riferisce necessariamente ad una virtù morale ma, piuttosto, ad una condizione effettiva, per l’appunto quella di un identico sentire: il senso comune, infatti, richiama un’idea, un concetto, un pensiero socialmente condivisi, ossia ritenuti conformi ad una logica, ad una razionalità, ad un’utilità di ordine collettivo. Che da ciò derivi sempre e comunque qualcosa di buono (tale poiché il centro del senso comune è la condivisione; se una opinione è condivisa sarebbe già di per sé giusta, a prescindere da verifiche di merito), rimanda a tutt’altro ordine di riflessioni. Quello che circola ed è fruito, non è infatti certo che sia di per sé cosa eticamente valida per il solo fatto che sia disponibile a tutti (o a buona parte delle persone). Dopo di che, il senso comune fonda – o comunque sta alla radice – di un altro fenomeno sociale, la legittimazione. Anche qui occorre una definizione: si tratta dell’atto in base al quale riteniamo un potere fondato sulla legge (degli uomini, ma anche della «natura). È conforme a legge, al netto dei codici di giurisprudenza, ciò che risponde a quanto è basato sull’interesse umano ed è basato sull’interesse umano ciò che è valutato come rispondente al senso comune. Si tratta di una catena di nessi che è vissuta come rispondente a qualcosa di reale ed autentico. Nessun potere, peraltro, può esistere senza un qualche grado di legittimazione. Neanche la peggiore dittatura può pensare di fare a meno di una forma di consenso, ancorché manipolato. Ed il consenso rimanda, ancora una volta, ai giudizi di senso comune. Oggi, la conquista del senso comune non implica per le forze politiche l’adeguarsi ad esso; piuttosto richiede il fare sì che, invertendo l’ordine dei fattori, sia esso stesso ad adeguarsi agli stimoli, alle rappresentazioni, agli obiettivi che la politica impone alla collettività. Non è una novità nell’età delle masse e dei grandi numeri. Tuttavia, invece che indicare forza, è semmai il segno della debolezza della politica medesima. Poiché rivela la sua costruzione fatta di rappresentazioni più che di sostanza. Ma il punto della riflessione non è questo. In quanto ogni operazione politica, volta ad egemonizzare il senso comune, ha ad obiettivo quello di creare un sentire condiviso. Ed il comune sentire serve soprattutto per affrontare l’incertezza del quotidiano, al pari dei timori per il tempo a venire. Come ha scritto qualcuno, l’egemonia culturale (e quindi politica) è un processo per il quale il dominio di un gruppo di potere, ovvero la sua «direzione intellettuale e morale», si impone sulla collettività attraverso non la coercizione diretta ma la condivisione di pratiche abituali, di credenze, di atteggiamenti, di modi di pensare la vita associata, fino al punto che l’interiorizzazione di tali elementi diventa un fatto completamente inconsapevole, ossia un dato di abitualità. Come bere un bicchiere d’acqua. L’egemonia è tale perché esprime qualcosa che sembra essere non solo ovvio ma anche “naturale”. Il potere, quando viene vissuto in tali termini, raggiunge il livello più alto della sua forza. Quindi del suo grado di maggiore legittimazione. Quand’anche esso dovesse esercitarsi contro la collettività, continuerebbe comunque a trovare un assenso in essa. La quale direbbe a se stessa che eventuali limitazioni imposte alla sua libertà derivano dallo stato di necessità e dal bisogno di tutela che quel potere sta soddisfacendo. Partendo da queste premesse, i sistemi democratici e costituzionali odierni si pongono il problema di mitigare la forza dei poteri attraverso sistemi di giustizia sociale e di riconoscimento dei diritti collettivi. Ma si tratta, alla prova dei fatti, di tentativi che rischiano di scontrarsi con la dura evidenza delle difficoltà oggettive, tanto più pronunciate quando quei sistemi non riescono a fare fronte alle necessità dei cittadini. Ingenerando quindi una crescente insicurezza. Ed è questo lo spazio nel quale si inseriscono gli sforzi, da parte di una politica aggressiva e disinvolta, per acquisire e garantirsi il controllo di ciò che abbiamo chiamato per l’appunto senso comune. Che non è mai precostituito, come se si trattasse di un oggetto dato una volta per sempre, ma si confronta con il maggiore o minore grado di legittimazione che la società offre alle sue istituzioni. La battaglia odierna di alcune forze politiche, infatti, non ha a che fare con la creazione di strumenti coercitivi – come invece nel caso dei regimi autoritari e totalitari del Novecento – ma con l’influenza da esercitare nella formazione di un comune sentire. Il rapporto tra questo percorso e gli strumenti di comunicazione di massa è strategico. Viene creduto non ciò che è riscontrato attraverso la verifica dei fatti ma quanto è ripetuto ossessivamente, tanto meglio se in un consesso mediatico, dinanzi ad una platea senz’altro intellettualmente passiva ma emotivamente coinvolta da ciò che sta ascoltando e vedendo. Poiché è in un tale contesto che si forma il senso comune, potendolo poi travasare e capitalizzare in consenso elettorale. Per l’uomo contemporaneo, sottoposto a mille sollecitazioni e ad una infinita gragnuola di informazioni, che gli piombano letteralmente addosso, è impossibile avere un’idea autonoma su tutto quello che gli è raccontato. Cerca quindi assensi e riscontri in altri interlocutori. La comunicazione di impressioni, che poi si fanno idee e concetti relativi al mondo nel quale si vive, è il fuoco della formazione del senso comune. Oggi ha a che fare più con il vedere e il sentire che non con il riflettere e l’interagire. Poiché l’emozione si pone ad un livello più elementare, ma anche maggiormente diretto, immediato, rispetto al concetto, che invece richiede tempo, riflessività, elaborazione. Il politico odierno, quello vicente, lo sa bene e quindi detta la sua agenda di priorità in base a ciò che più e meglio può raccogliere l’immediato consenso. Lo fa usando gli strumenti che giocano sul piano dell’identificazione tra leader e collettività, tra capo e masse. Non da ultima, la sua figura personale, che risulta tanto più convincente dal momento in cui riesce ad esprimere una vicinanza, non importa se fittizia, all’idea che molti nutrono della medietà, ossia della condizione di vita che gli appartiene o che ritengono possa appartenergli. Si tratta di una costante della politica del Novecento che si è riprodotta in questo nuovo secolo. Non è propriamente una distorsione ma il risultato del rapporto tra rappresentanti e rappresentati, tra eletti ed elettori quando le garanzie di diritto si attenuano, venendo sostituite dalla ricerca cieca di scorciatoie basate sul personalismo, sul carisma del leader, sull’accettazione acritica di un discorso pubblico sempre più spesso ridotto a degli slogan tanto vuoti quanto roboanti e quindi potenzialmente deleteri.

Claudio Vercelli