Slealtà e realtà
Non può sorprendere più di tanto l’accusa che Donald Trump ha rivolto a quei cittadini ebrei americani che, votando per il Partito democratico, manifesterebbero «grande slealtà» (testualmente: «Penso che qualsiasi ebreo voti per un democratico dimostra che è poco informato oppure una grande slealtà»). Questione di fondo: slealtà nei confronti di chi? Degli Stati Uniti, di cui gli elettori in questione sono cittadini a pieno titolo? D’Israele, di cui, fino a scelta contraria, buona parte degli ebrei statunitensi non sono cittadini? Non si tratta di domande da poco. In tutta probabilità, Trump è scarsamente interessato agli «ebrei» come tali, nei cui confronti sembra nutrire una visione sostanzialmente stereotipata, ossia poco propensa a capire chi essi effettivamente siano (almeno cinque milioni di individui, vivacemente e bizzarramente differenti tra di loro, senz’altro molto legati all’American Heart and Soul), preferendo semmai ragionare secondo una logica di senso comune, di cui rivendica da sempre di essere l’esponente più titolato se non il campione. In franchezza, urlare all’antisemitismo da subito, è forse un poco eccessivo. Semmai bisogna prendere atto che il “pensiero” di Trump incasella gli ebrei americani dentro una cornice di prevedibilità, come se costituissero un corpo omogeneo e compatto, dove l’identità dei singoli è solo ed esclusivamente la proiezione di un’appartenenza comunitaria; lo ha già fatto con altre minoranze, lo fa anche con i suoi connazionali ebrei. Trump rivendica ad ogni piè sospinto il “diritto” alla semplificazione binaria: destra/sinistra; bianco/nero; giusto/sbagliato, bene/male (si aggiunga quello che si preferisce). Sa che in questo modo intercetta il bisogno di immediatezza di una parte degli elettori. Di certo, invece, la polemica è rivolta contro il Partito democratico. Usando l’immagine da cartolina dell’elettore ebreo democratico («poco informato», «sleale»), attacca la formazione politica avversaria, attribuendo ad essa, a priori, una posizione che è contro gli interessi d’Israele. Tout court, ovvero senza tanti giri di parole. E qui si verifica un primo cortocircuito. Nella testa di Trump gli ebrei equivalgono ad Israele. Sono senz’altro cittadini statunitensi ma, poiché il cuore di molti di essi batte per le sorti di Gerusalemme, più che essere “israeliti” sono nell’intimo loro “israeliani” (virgolettati d’obbligo). La possibilità che si possa essere profondamente legati agli Stati Uniti, nutrendo al contempo un affetto per la millenaria terra dei Padri, senza per questo sovrapporre e confondere le due cose, non riesce a contemplarla. Per Trump gli individui sono esseri che hanno una sola identità, la quale gli deriva dai legami di gruppo. Non concepisce né il pluralismo sociale né la pluralità identitaria dei singoli. Ne consegue che la cittadinanza costituzionale (che invece si basa su più identità, coesistenti al medesimo tempo in un individuo, così come in un’univoca fedeltà verso un unico centro politico) sia qualcosa che risponda, a suo dire, più ad un vincolo ancestrale che non ad un legame politico, civile, morale e sociale maturato nel tempo. Il problema, evidentemente, non chiama in causa solo gli ebrei, anche se quando si è chiamati in causa come ebrei, la questione si fa da subito spinosa, se non altro per tutta l’intelaiatura antisemitica che sta dietro a queste questioni. Come un’ombra che si ripresenta in quanto spettro della storia. Secondo cortocircuito. Riguarda il richiamo ad una parola piena di conseguenze, ossia «slealtà». In questo caso «grande». Un rafforzativo. Nella logica del presidente statunitense è plausibile che un tale rimando sia rispetto all’ingratitudine che ritiene che gli ebrei, che continuano a votare il Partito democratico, gli stiamo in tale modo esprimendo. Tanto più dopo che ha assunto alcune importanti decisioni a favore di Israele. Come dire: non ce l’ho con voi per ciò che ritengo che siate (comportandovi a schiere compatte) ma perché non vi comportate per come penso che voi siate. Fare l’esegesi delle comunicazioni pubbliche di Trump non è poi così facile. Ci si confronta con l’immaginario di cui è depositario, che è gradito ad una parte degli americani e non solo ad essi. Un immaginario labirintico, ma senza via d’uscita; sempre più spesso influenzato da una parte dell’evangelismo (nulla di strettamente religioso, per carità; semmai è un calco politico, sotto forma di matrimonio tra messianesimo e utilitarismo, che è andato prendendo forma nell’America di questi ultimi quarant’anni almeno), anzi, dell’”evangelicalismo”. Il quale, però, di Israele ha una immagine molto funzionale alla sua ristretta concezione del mondo, dove il ritorno del Messia, il «Cristo», il Masciach, implicherà la conversione di coloro che cristiani già non sono. Quanto avviene in Israele, oggi, andrebbe quindi letto in tali termini, secondo questa teologica politica che non nasconde una certa vena apocalittica. Dopo di che, auspice anche il cambiamento climatico in atto, se fossi stato Trump avrei chiesto alla premier danese di cedermi la Groenlandia per farla diventare una nuova “terra promessa” (in realtà lui lo pensa per davvero, ma non per gli elettori reprobi, bensì per gli affari che si potranno fare). «Mai dire mai», avrebbe commentato il grande Sean Connery.
Claudio Vercelli