Il futuro dell’informazione ebraica

emanuele calòL’ebraismo italiano necessita di una pluralità di fonti d’informazione; se possibile, dovrebbero essere controcorrente rispetto al calo qualitativo che affligge una parte della stampa. Se non si sono più i Biagi ed i Montanelli, è per il tipo di selezione operata e non certo perché manchino i talenti.
Lo statuto dei giornalisti non è così diverso da quello previsto sotto il fascismo, perché ora, secondo un commento del Contratto di Lavoro: “Tuttavia, per quanto non vincolante, il parere della redazione ha pur sempre un peso, giacché l’editore deve sapere che se il direttore è stato sfiduciato dalla redazione, egli non potrà svolgere il proprio compito con il pieno e incondizionato consenso del corpo redazionale. Si vede dunque che il parere espresso dall’assemblea dei redattori ha quanto meno un rilievo – per così dire – politico, cui l’editore non deve necessariamente uniformarsi”; sotto la dittatura, la nomina di direttore doveva ottenere il placet del procuratore generale presso la Corte d’appello. Poiché il cennato Comitato di Redazione riveste natura sindacale, il salto di qualità, se c’è, è tutt’altro che palese. Talvolta si vuol far passare per leggenda metropolitana l’asserita unicità nel mondo dell’Ordine dei giornalisti italiano, ma tale ricostruzione ha difficoltà a passare per una competente ricostruzione normativa.
La stampa ebraica dovrebbe recepire le diverse correnti di pensiero a livello quantitativo e qualitativo; quest’ultimo aspetto potrebbe rivelarsi non solo istruttivo ma, soprattutto, assai ameno, ad esempio sotto il profilo dell’originalità (alludiamo alla possibilità di un futuro plagio), dell’indipendenza (sostenere in futuro un’opinione su una testata a pagamento ed il suo contrario in una testata dove non si sia remunerati), dell’etica (esprimere opinioni razziste o comunque contrastanti con la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, ad esempio, degradando il terrorismo omicida da crimine ad errore).
In ogni caso, quale che sia l’orientamento della testata, un fatto è certo: nel mondo ebraico, i soldi spesi meglio sono quelli per una buona istruzione e per una buona stampa; tagliare gli spazi, ed in particolar modo quelli culturali, è un danno per il lettore, il quale è spesse volte anche un contribuente. Nelle scuole, sta ai docenti cercare di raggiungere un livello alto nell’insegnamento e, nella stampa, sta ai volontari, fra i quali il sottoscritto s’annovera, di agire come se fossero dei validi professionisti.

Emanuele Calò, giurista